Un bambino attende impaziente, affacciato alla finestra, l’arrivo del circo. La sequenza iniziale de I Clowns di Federico Fellini sembrerebbe introdurre lo spettatore in quell’atmosfera di magica illusione favolistica e spiccia brutalità che il circo racchiude in un continuum confuso di graziosa armonia e grottesca trivialità. Con quest’opera iniziano i tormentati e controversi anni ’70 del regista riminese (nella stessa fantasmagorica maniera, verrebbe da dire, con cui si erano conclusi i ’60 con “Fellini Satyricon”): la spasmodica capacità creatrice di questo straordinario autore nel reinventare le forme della vita con la forza immaginifica del cinema si scontrerà sempre più frequentemente con un clima meno favorevole (almeno in quella patria che mai gli ha risparmiato critiche), con problemi personali e con un successo (perlomeno quello commerciale) declinante a dispetto di una fama internazionale. Il circo de “I Clowns”, inizialmente prodotto dalla RAI e concepito in maniera disorganicamente documentaristica, rappresenta, pertanto, la metafora della (im)possibilità dell’arte di rappresentare la vita (e trascenderla, dunque) in un sistema coerentemente univoco. E’ l’autore stesso, all’inizio, che rievoca la sua infanzia con stupore nostalgico ripensando agli stravaganti personaggi che popolavano il provinciale borgo natio: la monaca nana in bilico tra il convento e il manicomio, il mutilato che rimpiange il ventennio (fascista), il matto che crede d’esser ancora in guerra, la donna che raccoglie il marito ubriaco dalla taverna con la carriola. Figure d’umanità bizzarra in tutta evidenza assimilabile per Fellini all’eccentricità circense giacchè lo stesso regista, nei panni del conduttore d’una inchiesta, s’immerge subito dopo (e immerge noi con lui) in questo incantato mondo. Visita il circo di Liana Orfei, infatti, e assiste ad alcuni numeri di “pagliacci” cercando di carpire i segreti di quella comicità bambinesca e primitiva, racconta la storia del primo clown triste, il mitico “Auguste”, sempre in coppia con il clown bianco. La narrazione (l’inchiesta?) si sposta poi a Parigi, nella città che, più di tutte, ha celebrato il circo dedicandogli luoghi per lo svolgimento degli spettacoli, dove vivono ancora famosi clowns come Bario e Rhum e dove Fellini ricostruisce i “numeri” più famosi dei Fratellini, di Baptiste, di Pere Loriot fino allo struggente – ancorchè surreale – spettacolo finale. Le esequie del clown morto Fischietto si svolgono in un clima rutilante tra fuochi d’artificio e spruzzi d’acqua, esplosione di luci abbaglianti e ingresso di attori in pista per rendere omaggio allo scomparso. Fellini non fa in tempo a rispondere ad un giornalista che gli chiede il senso dell’opera che viene rappresentata sullo schermo: vengono infilati due secchi su entrambe le teste del regista e dell’intervistatore. La troupe e i pagliacci abbandonano la scena. Dall’alto un clown suona la tromba: ne compare un altro ed insieme escono dal tendone lasciando il circo vuoto. L’autore riminese omaggia lo spettacolo per eccellenza (il circo) con una partecipazione emotiva straordinariamente affettuosa, con delicato rispetto nei confronti di tutti i protagonisti (quelli più umili e quelli più celebrati) avvolgendo lo spettatore in un’atmosfera di sospensione fiabesca che annulla la dimensione spazio-temporale. Le grottesche figure dell’infanzia s’agitano, infatti, in una sorta di indefinito non-luogo, la Parigi della rivisitazione circense è completamente inventata, le lenti carrellate sulle strade vuote, prive di traffico, le estenuanti panoramiche prospettiche sulle facciate degli eleganti edifici (ri)definiscono una città onirica e, forse, ideale. “I Clowns” anticipa per molti aspetti l’Amarcord che verrà: la malinconica rievocazione dei fasti circensi, la ricerca del circo che fu, dello spettacolo, pertanto, più puro (perfetto nella sua immediatezza ingenua), equivale per Fellini alla disperata “recherche du temp perdu”, al recupero dell’innocenza di chi sa stupirsi e godere della semplicità. E nella sarabanda insensata della vita – che per quanto vi siano lazzi festosi termina con la definitiva uscita di scena – nulla, probabilmente, ha più forza e valore della memoria che scava e recupera il sé autentico: quello che il fanciullo sembra dimenticare nell’età adulta quando le illusioni muoiono. (Nicola Pice)