Da sempre l’elefante è stato addestrato dall’uomo come mezzo di trasporto, per lavori pesanti, per la guerra o per lo sport. In India, addetti al loro addestramento erano i mahout, persone che vivevano a stretto contatto con i pachidermi, stipendiati dai principi indiani anche per custodire le loro stalle e prendersi cura della loro alimentazione, della loro salute, della pulizia e del bagno, della loro riproduzione.
I mahout, anche noti come cornac, con pazienza interagivano con questi animali stabilendo con loro un linguaggio fatto di ventiquattro comandi, tra i quali l’avanti, la fermata, il sollevamento con proboscide, il coricarsi. In un gioco fatto di carezze ed input gli elefanti imparavano a compiere molteplici lavori, complessi e per l’uomo pesanti. Anche quando questi enormi animali giunsero in Europa furono sempre affiancati da mahout. Esemplari di elefanti erano, infatti, presenti in ogni corte europea sin dal medioevo, un elefante fu donato dal re Manuele del Portogallo a papa Leone X nel 1514 ed uno era pure presente nei giardini di Versailles. Alcuni di essi partecipavano anche a delle fiere per il diletto del pubblico. Per esempio si ricorda l’elefantessa Hansken che nel Seicento attraversò l’Europa strabiliando platee di contadini, artigiani e mercanti. Il suo mahout le aveva insegnato a sventolare bandiere, battere tamburi, mettersi un copricapo, sparare e sfilare soldi dalle tasche. Proveniva dall’isola di Sri Lanka. Fu comprata da Federico Enrico d’Orange e poi acquistata da Cornelis van Groenevelt che la destinò ad una tournée nelle fiere del continente. Morì a Firenze, il 9 novembre 1655, ed il suo scheletro è conservato al Museo della Specola.
I mahout erano i depositari di una antica tradizione di abilità ereditate. E’ inutile dire che si trattava di un lavoro pericoloso perché gli animali potevano imbizzarrirsi, afferrarli e scagliarli lontano, incornarli oppure schiacciarli. Il celebre documentarista Félix Samuel Rodríguez de la Fuente, ambientalista e guida di safari, scriveva: «Per catturare gli elefanti selvatici, i battitori spaventano i branchi in modo da farli entrare in un recinto-trappola circondato da una robusta palizzata, dove poi coppie di elefanti addomesticati e appositamente preparati imprigionano uno alla volta gli esemplari selvatici, fra uno spaventoso baccano di grida e barriti, mentre alcuni uomini, dando prova di straordinario coraggio, corrono in mezzo ai colossi infuriati finché non riescono a legarli con robuste corde. Inizia quindi il lungo e delicato lavoro che trasformerà il selvaggio prigioniero in un magnifico e leale collaboratore dell’uomo. Per cominciare ogni elefante appena catturato viene affidato a un cornak o addomesticatore di elefanti, che s’incaricherà di ammansirlo, allenarlo, curarlo e condurlo per tutta la vita. Per due interi giorni, subito dopo la cattura, l’elefante resta solidamente legato, senza mangiare né bere né riposare. Poi un po’ alla volta si allentano le corde, gli si dà da mangiare e si scacciano gli insetti che lo tormentano con le loro punture. Il cornak adempie a queste operazioni con estrema delicatezza e sempre cantando una stessa monotona melopea per tranquillizzare l’elefante e abituarlo alla sua presenza e alla sua voce. Alla fine l’elefante si lascia toccare e accarezzare dall’addomesticatore, che allora ne sfrega con erbe i fianchi e il dorso e poco dopo dà inizio all’addomesticamento. Dapprima il cornak si serve di altri due elefanti addomesticati, che obbedendo ai suoi ordini fanno sì che il neofita comprenda più facilmente il significato delle parole, per cui dopo due o tre settimane di allenamento è già in grado di obbedire agli ordini “in marcia”, “alt”, “inginocchiati” e “alzati”, anche se poi passeranno anni prima che sia pronto per mettersi al lavoro. Il cornak addestra il suo elefante ad obbedire a circa 21-24 comandi, i più importanti dei quali sono: avanti, fermati, retrocedi, alza la zampa, coricati sul ventre, coricati sul fianco, alza la proboscide, dammi quella cosa, bevi, fatti la doccia sul dorso, innaffiati il ventre, entra nell’acqua, spingi con la zampa, spingi con la testa, supera l’ostacolo e spacca l’ostacolo. L’elefante che è riuscito a capire questo vocabolario è in grado di compiere un’infinità di lavori, ma gli esemplari bene allenati non hanno nemmeno bisogno di ricevere ordini e possono lavorare in perfetto coordinamento con i loro simili».
Diversi mahout divennero famosi nei circhi del mondo, per esempio, Epi Vidane che, nato nel 1890 a Kandy, Sri Lanka, fu ingaggiato da Jacob Busch per i suoi spettacoli con elefanti. Fu visto la prima volta da impresari europei nella sua terra, nel 1925, in un evento organizzato per l’arrivo di re Giorgio V. Quella volta mise la sua testa nella bocca di un elefante e fu sollevato e portato a spasso. In Europa fu protagonista di uno sconvolgimento dello spettacolo con animali. Nella parate cittadine e nei tendoni, i suoi pachidermi conducevano persone, issavano oggetti pesantissimi, li spingevano e li lanciavano. Lo si vedeva salire su di loro servendosi delle proboscidi con estrema leggereza, interagire con immediatezza dettando ogni sorta di movimento. Suo figlio Banda si esibì al circo con questi enormi mammiferi sin dall’età di cinque anni e lavorò col Rennbahncircus di Franz Althoff, col Circo Knie, col Krone e in Italia col Circo Americano, seguito a sua volta da suo figlio Bodidasa. Nel frattempo però lo stile di addestramento era mutato. Banda aveva rinunciato ad ogni aspetto costrittivo dell’addestramento tradizionale per puntare sui movimenti naturali e sulla danza. Per il pubblico occidentale fu una vera scossa. Abituato a considerare gli elefanti dei giganti maldestri e sgraziati, restava stupefatto nel vederli muoversi con una certa velocità e coordinazione in armonia con la musica. Banda li lasciò in atteggiamenti naturali come lo stare in piedi sulle zampe posteriori, cosa che gli elefanti fanno per raggiungere il cibo, o il posizionarsi con la testa a terra sulle zampe anteriori, necessario in natura per estrarre le radici dal terreno. Ciò valse a Banda un riconoscimento dalla Società Olandese per la Protezione dei Diritti Animali, nel 1988.
Anche la prima star indiana di Hollywood era un mahout. Parliamo della legenda del cinema Sabu, passato dalla pellicola ai tendoni.
Nato nel 1924 a Karapur, nello stato di Mysore, in India, proveniva da una famiglia di addestratori di elefanti. Anche Sabu era destinato a questo lavoro e già a sei anni, quando suo padre morì, iniziò a servire nelle stalle della famiglia reale divenendo il pupillo del maharaja di Mysuru. Tempo dopo, il documentarista Robert Flaherty, in India per cercare la location del suo prossimo lavoro, restò folgorato da questo ragazzino che, appena tredicenne, con tanta disinvoltura saliva con grazia e sicurezza sugli enormi elefanti. Lo volle nel ruolo di mahout nel film “Elephant Boy” e non si sbagliò. Il pubblico occidentale scoprì con quella pellicola un adolescente esile, sorridente e gentile, estremamente agile, naturalissimo nelle pose e negli espressioni, soprattutto capace di fornire una stupenda dimostrazione dell’armonioso rapporto che l’uomo poteva istaurare con gli elefanti.
Il successo del film, proiettò Sabu in una lunga carriera di attore, soprattutto in film fantastici tra i quali spiccano “Il ladro di Bagdad” del 1940, dove vestì i panni di Abu, e “Il libro della giungla”, pellicola in cui interpretò Mowgli. Divenuto cittadino americano, Sabu partecipò alla Seconda Guerra Mondiale e fu insignito della Distinguished Flying Cross per il suo valore e coraggio. Continuò a girare film, ma lavorò anche come addestratore di elefanti negli spettacoli circensi. Per tre anni, infatti, viaggiò in tutta Europa, fu in Inghilterra, in Francia, in Germania, nei Paesi Bassi col Circus Mikkenie e fu richiesto anche al Ringling Bros. and Barnum & Bailey per il pubblico statunitense. Tra il 1951-1952, divenne una delle attrazioni del Circo di Natale di Tom Arnold all’Harringay Arena di Londra, dove si esibì con undici elefanti di proprietà di Franz Altoff. Col circo raggiunse anche l’Italia. Era il 1952 e la fama di Sabu attirò le attenzioni della Rizzoli Film. Gli sceneggiatori Cesare Zavattini e Suso Cecchi D’Amico s’affrettarono a scrivere una storia che potesse sfruttare l’illustre attore e così nacque “Buongiorno, Elefante!”, film girato da Gianni Franciolini con Vittorio de Sica nei panni di un insegnante di scuola che, dopo aver aiutato il sultano di Nagor, ovvero Sabu, viene ricompensato col dono di un piccolo elefante.
Purtroppo, l’addestramento dell’elefante nei circhi occidentali è stato ampiamente frainteso ed oggi va scomparendo. Alla possibilità di correggere ciò che non andava, migliorando dove necessario la condizione degli animali, si va preferendo la proibizione. La scomparsa di questi colossi dai nostri tendoni cos’altro potrà rappresentare se non la recisione dei legami secolari degli uomini con gli animali?