Titizé – A Venetian dream: le maschere della realtà

Avatar Armando Talas

Venezia, 16 Agosto 2024. La luce ardente del pomeriggio si riflette sulle barche che filano tese lungo i canali, facendo ribollire l’acqua immobile della laguna; dardeggia sul ferro di prua delle gondole nere; colpisce inesorabile la folla accalcata sui vaporetti. 

Venezia in agosto ha sempre qualcosa di fiabesco, un’atmosfera da “Le mille e una notte”, così distante dal clima freddo dei suoi Dicembre rosso shocking.

In queste acque salmastre dove tutto si specchia e deforma si nasconde il mistero di Titizé, il nuovo spettacolo co-prodotto dal Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale e dalla Compagnia Finzi Pasca, celato agli occhi come la Clavicola di Salomone. 

Il teatro Goldoni, gioiello veneziano del diciassettesimo secolo, è pieno del frinire delle cicale; lo sfondo sul palcoscenico è azzurro screziato di bianco. Dietro di me un ragazzino chiede al padre se si tratti del mare o del cielo, ma non c’è risposta a questa domanda. Poi il frinire aumenta d’intensità, quasi le cicale volessero zittire il chiacchiericcio della platea; le luci calano lentamente fino a spegnersi e sugli occhi degli spettatori si spalancano i sogni veneziani di Titizé. 

Si tratta di sogni vividi, coerenti e cesellati; non si pensi a un mondo onirico insensato dove l’inconscio frantuma e stravolge la realtà. Quelli di Titizé sono piuttosto sogni rivelatori, che aprono squarci di comprensione sul mondo.

Titizé è un grande spettacolo di circo, anche se questo termine non compare nella sua presentazione. In effetti, più precisamente, è uno spettacolo dove il circo è asservito a un’impresa artistica più vasta e ardita, dove diventa solo uno strumento, un artificio adatto a creare il senso del meraviglioso. Allo stesso scopo è utilizzato anche l’illusionismo, presentato in chiave comica e farsesca. A ben vedere, tutti gli elementi artistici sono coerentemente votati all’impresa comune mirabilmente orchestrata da Daniele Finzi Pasca, senza componenti soverchianti. I quadri tematici sono perfetti nella loro luce rarefatta, sospinti dalle musiche di Maria Bonzanigo, e vivono di dinamismo acrobatico e maschere grottesche, che nascondono volti troppo umani.

Proprio la maschera è uno degli elementi centrali dell’opera. Gli attori e gli acrobati appaiono spesso mascherati, quasi partecipassero all’antico carnevale di Venezia; in netto contrasto, alcune performance, come l’esibizione al palo cinese o il numero di cinghie aeree, sono svolte da acrobati in abiti comuni, quasi fossero semplici turisti che durante una vacanza finiscono immersi nella realtà fantastica di Titizé, questa parola che suona vagamente come “tu sei” in veneziano. E il pubblico avverte questa vicinanza, ha quasi la sensazione di spiare frammenti della vita della laguna. Si scopre a sbirciare il rendez-vous che si consuma alla rue cyr tra un uomo aitante e vorticoso e una donna accecata d’amore, che si esibisce con la benda sugli occhi. Sbircia un passato eroico e bellico, farsesco, dove un’armatura possente vola in aria come sollevata dai fili di un burattinaio gigantesco, e ricade continuamente al suolo, in balia degli eventi. Osserva la vita del lido, dove un palombaro nuota nel cielo, quasi la spiaggia dove siedono i bagnanti fosse sul fondo del mare, e dove appare perfino una sirena dalla lunga coda squamosa.

Sempre è presente una componente giocosa, dissacrante, a volte perfino un voluto rivelarsi della finzione scenica, che è solo una delle tante maschere della realtà.

Lo spettatore osserva alternarsi queste scene diverse, ma accomunate da una presenza costante: Venezia. Si respira nell’aria dello spettacolo il suo profumo salmastro e orientale, tutto è giocato nel labirinto mentale delle sue calli. Se gli attori parlano, usano il veneziano, al più qualche frase in lingua inglese, come si rivolgessero a turisti provenienti da nazioni lontane. Tutto mira a raccontare una Venezia dalle molte maschere, ma vissuta, e proprio per questo lo spettatore finisce per sentirsi parte del cosmo narrativo. 

Lasciando Venezia, osservando la scia del vaporetto nell’acqua ormai scura della sera, si resta in balia di questo mistero. Titizé racconta qualcosa che anche tu sei, un pellegrino venuto a cercare qualcosa nelle acque della laguna, tra le calli di Venezia: forse solo la bellezza, forse un volto sotto la maschera. 

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