In questa intervista esclusiva per circusnews.it Daniele Finzi Pasca ci parla di circo, di teatro, di passato, presente e futuro di queste straordinarie forme d’arte e di quando decise di fare il clown per spaventare suo fratello.

Raggiungo tramite mail Daniele Finzi Pasca che alla mia richiesta di intervista accetta subito, senza voler vedere prima le domande, senza conoscermi e senza nessun vincolo.
Ne esce un racconto lucido ed appassionato. Ringrazio Daniele per questo splendido regalo. Chiacchierate intelligenti aiutano a vivere meglio. Buona lettura.

Partiamo proprio da Titizè: la parola “circo” non compare mai pur essendo uno spettacolo prevalentemente circense. Questa scelta comunicativa (adottata ormai da moltissimi, tra cui Knie) a cosa è dovuta?
Credo che ci siano definizioni e classificazioni spesso usate in modo improprio. Il Circo moderno nasce con Astley a metà del 1700 come spettacolo equestre. L’acrobazia invece è una forma non solo di spettacolo, è anche un cammino iniziatico presente nella storia dell’umanità dai suoi albori. Ci meritiamo il primo applauso quando da bimbi riusciamo dopo tanti tentativi a metterci per la prima volta in equilibrio sulle gambe. Da quadrupedi che eravamo improvvisamente ci ergiamo e ci manteniamo in equilibrio. L’acrobazia è la rappresentazione delle domande metafisiche che l’umanità si pone da sempre, è la risposta all’angelismo degli Dei. Con gli acrobati si evocano e si rappresentano le sfide tra noi e le leggi che reggono la realtà, con la forza di gravità in primis.
Nel mondo del teatro, attraversando tradizioni millenarie, si ritrovano attori poliedrici, maestri in arti diverse tra loro; dal canto alla recitazione, dalla danza all’acrobazia.
Io provengo dal mondo della ginnastica artistica. Da ginnasta sono diventato acrobata e poi attore. Il teatro per me è fondamentalmente fisico, il mio è un teatro totale, è liturgia, bisogno di raccontare storie, voglia di commuovere usando il linguaggio dei sogni, è ricerca, cura dei dettagli, del senso, è stupore, metafora, allusione. Adoro il Circo e l’ho frequentato e credo di averlo trasformato proponendo soluzioni nuove che in un qualche modo hanno ispirato tanti amici e colleghi. Il circo per me è un luogo fisico e non uno stile e neppure un linguaggio. Quando costruisco con acrobati spettacoli teatrali non faccio riferimento al circo, ho fatto circo quando ho lavorato nei circhi.

Circo classico e contemporaneo: c’è spazio per una convivenza e una collaborazione vera tra questi due mondi o hanno estetiche e radici troppo distanti tra loro? 
Al contrario, hanno la stessa radice e sono semplicemente ramificazioni o evoluzioni della stessa tradizione. Per analogia possiamo trovare le stesse differenze in cucina. Ci sono trattorie che riproducono ricette antiche e altre cucine dove si propongono modi di elaborare gli alimenti curiosi e sorprendenti dove si reinventano ricette pensando alla contemporaneità. Il pubblico sceglie dove mangiare ogni fine settimana guidato a volte dal bisogno di ritrovare i sapori famigliari, altre volte dalla curiosità, altre volte dal bisogno di novità. C’è posto per tutti. Mia nonna diceva che per fare con amore da mangiare ci vogliono buoni alimenti ed essere capaci di non rovinarli cucinandoli. Non basta dunque cucinare, per avere successo bisogna avere veramente voglia di coccolare il pubblico, di stupirlo, meravigliarlo e a volte consolarlo. Chi apre ristoranti dove non si cucina con amore fa del male a tutto il settore contribuendo a creare diffidenza. Chi mette su spettacoli mediocri, chi copia cose viste altrove, chi usa soluzioni banali, gesti pretestuosi, non fa che contribuire alla decadenza di tutto un movimento, di una tradizione che dovrebbe essere lasciata in mano solo a chi ha talento, a chi ha voglia di continuare a superarsi, a chi tende e anela il sublime, a chi vorrebbe un giorno capire il significato della parola arte.

Pensa che il circo abbia perso parte del suo fascino originario a causa della crescente digitalizzazione e tecnologizzazione degli spettacoli? Quanto le manca “l’odore inconfondibile di segatura” che si avvertiva entrando in uno chapiteau?
Il senso della nostalgia non ha nulla a che fare con il passato, nostagia è l’esaltazione del presente; si alza un calice di vino dopo una serata meravigliosa con amici preziosi, con la famiglia, con colleghi amati e ci si augura, “speriamo di rivederci presto”, questa è la nostalgia, la saudade brasiliana. La nostalgia è un anelito sempre proiettato verso il futuro.
Chi guarda troppo al passato aggiungendo una dose eccessiva di tristezza e malinconia si deprime, inventa mondi mai esistiti, appassisce, una vera tragedia.

Come giudica la risposta delle istituzioni culturali e dei governi nei confronti del mondo circense?
Ci sono paesi e paesi. Dovremmo prenderci un tempo gigante per disquisirne.

La grande influenza che il Cirque du Soleil ha sul panorama mondiale è indiscutibile tanto da influenzare e trainare tutto il settore (influenza e credibilità che si è guadagnato sul campo producendo dei veri e propri capolavori). C’è il rischio di una polarizzazione eccessiva e di una sorta di monopolio a scapito di altre produzioni più piccole e artigianali?
Guy Laliberté vent’anni fa mi chiamò a dirigere per la prima volta il Cirque du Soleil dopo aver visto Icaro, uno spettacolo che continuo a portare in scena, uno spettacolo piccolo piccolo. Credo profondamente che la semplicità sia materia difficile da addomesticare. Con gli stessi creatori abbiamo costruito spettacoli monumentali grandi come Cerimonie Olimpiche senza mai perdere il gusto per le nostre origini e dunque per la delicatezza di certe piccole avventure teatrali. Per non perdermi torno sempre a Icaro, lo faccio anche quando mi trovo a creare e dirigere progetti giganteschi, di nascosto torno sulla scena, magari in teatri piccoli, solo per non perdere l’abitudine a ciò che sono e vorrei essere, un clown.

Animali: sì o no e perchè.
Nessuna sofferenza giustifica il piacere e la necessità di sorprendere, vale per tutti. Non è accettabile che ci siano allenamenti disumani, condizioni di lavoro non corrette, sfruttamento, mancanza di poesia e professionalità. Vale per chi lavora nell’ombra degli spettacoli, vale nel modo di rapportarsi tra chi dirige un’impresa e chi viene scritturato dalla stessa. L’etica va messa sempre al primo posto, vale per gli esseri umani, vale per il mondo animale, vale per la natura in senso ancora più rofondo. La questione dunque non è se si possono usare gli animali. Un animale non va usato, un acrobata, un tecnico, un facchino non va usato. Si lavora, si gioca, si costruisce insieme. Ci vogliono codici etici, buon senso, amore, delicatezza, onestà e un senso del rispetto per capire e discernere. Se si legge tristezza negli occhi di un animale, di un acrobata, di un tecnico qualcosa non va.

Molti circhi, penso sempre alle ultime tournée di Knie, per attrarre nuove generazioni inseriscono nello spettacolo cantanti pop (Bastian Baker) piuttosto che comici televisivi.
Cosa ne pensa di questa scelta? C’è il rischio di perdere l’universalità e la totale fruibilità e virare verso lo spettacolo di Varietà? È un compromesso che possiamo accettare?

Ad un artista va sempre rimproverato quando non persegue con devozione la ricerca dell’eccellenza, della perfezione, del sublime. Nel mondo del circo, in modo totalmente improprio, si definiscono artisti tutti, vai in scena per la prima volta e già sei un artista di circo, questo crea una confusione tremenda. Artisti sono pochi, pochissimi, appaiono ogni tanto nel mondo della letteratura, della musica, della pittura, tutti noi altri siamo bravi artigiani, guitti, saltimbanchi. Ho conosciuto produttori meravigliosi, acrobati magnifici, ho conosciuto stupendi musicisti, creatori geniali, di artisti solo alcuni, pochi, pochissimi. Da loro mi attendevo una spasmodica ricerca del sublime, dagli altri mi aspetto il mestiere di chi cerca di restare a galla, di chi cerca con onestà di rispondere alle tre fondamentali domande della nostra vita: Da dove vengo? Dove sto andando? Cosa si mangia questa sera?

Alcuni critici sostengono che il circo contemporaneo si stia trasformando troppo in teatro, perdendo la sua essenza originaria. Cosa ne pensa?
Attorno all’inizio del 1500 in un Teatro smontabile che a Venezia Alessandro Benedetti aveva fatto costruire, si iniziò per la prima volta a pagare un biglietto per assistere ad uno spettacolo. Si trattava di un Teatro Anatomico e gli spettatori pagavano e pagavano soldoni per assistere a delle dissezioni anatomiche. Tutte le dissertazioni sul teatro e sul circo devono fare i conti con il gusto degli spettatori, con l’estro dei produttori e con la visionarietà dei creativi a cui si chiede di stare sempre un passo avanti rispetto agli esperti e ai teorici. Alcuni aprono strade nuove, allargano gli orizzonti, rischiano e sperimentano, altri seduti in poltrona teorizzano. Si può tutto, questa è la risposta. A me importa raccontare storie e lo faccio con il potere della metafora e dell’allusione. Adoro lo spazio scenico perché posso mettere in opera macchine teatrali capaci di creare incanto. Con Jean Rabasse cambiammo la morfologia dello chapiteau quando debuttammo con Corteo e subito l’idea fu copiata da altri. Quello che chiamiamo tradizione tempi addietro non esisteva, creatori hanno inventato rivoluzioni che poi altri hanno copiato, ripetuto e ripetuto. I creatori inventano, altri copiano, riproducono modelli senza rinnovarli e ne risultano spettacoli che a volte sono coperti da polvere che ha il tragico odore a muffa.
Nulla è immutabile e come le pere e le mele lasciate in frigo, tutto tende a perdere splendore, avvizzisce, si degrada. Le idee sono come frutti freschi, vanno mangiati quando sono maturi. Chi crea si occupa della terra e delle piante che l’anno prossimo dovranno fiorire nuovamente per regalarci nuove sorprese.

C’è un sogno nel cassetto che non è ancora riuscito a realizzare?
Tanti

La sua prima volta al circo. Mi racconta cosa è successo?
Mio fratello Marco (lavoriamo insieme da tutta la vita) si spaventò quando un clown si avvicinò per vendere a mia mamma un programma di sala. Io sono il fratello maggiore ma lui è sempre stato più robusto di me. Quel giorno decisi di diventare clown. A Marco la paura dei clown gli passò purtroppo in fretta.

Come da tradizione l’ultima domanda può farla lei a me.

Daniele Finzi Pasca: Dimmi quali sono gli artisti fuori dal mondo dello spettacolo, del teatro e del circo che ti hanno influenzato o toccato profondamente.
Davide Vedovelli: Gli artisti che più mi hanno influenzato sono legati al mondo della canzone d’autore, quindi perimetrali al mondo dello spettacolo. Ci sono però 2 libri (e quindi due scrittori) che quando li ho letti hanno lasciato un segno profondo tanto da segnare un prima ed un dopo. I due libri sono “Narciso e Boccadoro” di Herman Hesse e “Furore” di John Steinbeck. Erano gli anni del liceo e ho capito che era possibile una sensibilità profonda e diversa da quella che conoscevo fino ad allora.
Tra i cantautori invece sicuramente Fabrizio De André, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Roberto Vecchioni, Francesco Guccini e Francesco De Gregori. Per me l’utilizzo della parola, del verso e le finalità di un’opera (canzone, libro o spettacolo esso sia) sono molto importanti. Credo nel ruolo sociale dell’artista, nel suo compito di riuscire ad arrivare dove gli altri non riescono per sensibilizzare ed emozionare il pubblico. Credo che servano da bussola anche se molti si sottraggono a questa responsabilità, c’è una differenza sostanziale tra chi fa arte e chi intrattenimento.