Recensione del libro “La Rivoluzione in Pista” di M.V.Vittori

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Davide Vedovelli, da grande appassionato di circo e abile manipolatore culturale qual è, da anni tenta di instradarmi verso la magia del circo. Gli brillano gli occhi ogni volta che racconta di aver assistito a quel tale spettacolo in giro per l’Europa – imperdibile! – o quando snocciola le date e i personaggi che parteciperanno al prossimo festival Strabilio.
Fatto sta che una sera mi ritrovo tra le mani questo libro, La rivoluzione in pista. Storie di donne, circo e libertà di Maria Vittoria Vittori, e Davide mi chiede – ovvero mi intima velatamente – di leggerlo e trarne una recensione da spendere su non so quale dei suoi vasti canali comunicativi. Evidentemente, ho pensato, il circo sarà anche magico ma la manovalanza è sempre alla base di ogni magia.


Da perfetta ignorante del tema, se non per le sporadiche ma costanti infarinature dell’amico di cui sopra,
accetto la sfida e mi applico nel compito affidatomi. Leggo il libro, prendo appunti, mi informo con qualche breve ricerca sul personaggio che più mi ha colpito perché è il più noto e dunque quello che anche io dovrei conoscere meglio. Invece mi accorgo subito che, nonostante tanti su di lui hanno espresso opinioni, pareri e addirittura trattati filosofici, non lo conosco affatto se non per il fatto che, a scuola e dunque tanto tempo fa, mi capitò di vedere Tempi moderni. Sto parlando ovviamente di Charlie Chaplin/Charlot.
Di questo personaggio “mondo”, a cui è dedicato il capitolo centrale del libro, è famosissimo il breve scambio di battute con Albert Einstein del 1931, nel quale mi sono imbattuta per caso non attraverso i social ma in un passaggio all’interno di uno dei più recenti libri di Daniel Lumera: si narra che Einstein disse a Chaplin che della sua arte ammirava principalmente l’universalità: senza dire una parola, il mondo lo capiva. Al che Chaplin replicò che era vero ma che allora il fisico era da ammirare ancora di più in quanto il mondo intero lo ammirava ma nessuno lo capiva.
Oltre alla sua arguzia, di questo personaggio (attore e personaggio ad un certo punto coincidono) nel libro si mette in risalto il “carattere indifeso a allo stesso tempo agguerrito, tipico di chi deve proteggersi a tutti i costi – anche con la sfrontatezza e la trasgressione – da un mondo ostile, dove non c’è per lui né ordine né giustizia.”


E’ facile riconoscersi in Charlot quando opera uno dei suoi “tentativi di integrazione”: dopo il primo insofferente moto reazionario, solitamente però poi la maggior parte di noi capitola e si assoggetta al complesso di regole che governano tanto il lavoro quanto la società mentre lui no, si scopre ogni volta “assolutamente refrattario”.
Ed è per questo che nell’arte ed in letteratura tanti hanno celebrato questo personaggio – e più in generale
il circo – perché l’artista si riconosce nei tentativi di Charlot di libertà, di opposizione, di sbalzo creativo.
Ma Charlot è più tangibile dell’arte perché ci fa ridere. Anche se il riso, che a noi pare così spontaneo e liberatorio, è per l’artista che lo provoca il vero lavoro, l’obiettivo professionale da raggiungere, e dunque una cosa da prendere assolutamente sul serio. Grock, uno dei più famosi clown di tutti i tempi (ho scoperto), pensava che “un sorriso ben recitato può sostituire una lunga frase. Basta un unico movimento per scatenare l’entusiasmo”. Il riso e l’azione sono in questo caso più catartici della parola. Ma il riso è ancora di più, va oltre il dovere di un abile clown: il riso, attraverso il circo, diventa un tema filosofico.


L’autrice del libro si sofferma a più riprese sul pensiero filosofico di Maria Zambrano, che sul tema del riso ha improntato larga parte del suo lavoro. Il riso, per la filosofa, è un “gesto pensante” e in questo senso Charlot è il massimo rappresentante di quell’allegria “irriflessa e vitale che nasce ‘dal semplice fatto di essere vivi e di poter soffrire e danzare’”. L’allegria, intesa non soltanto come sentimento ma come forza creatrice e trasformativa, è uno dei temi che secondo Maria Zambrano è degno di essere inserito nel discorso filosofico e anzi, dovrebbe essere maggiormente valorizzato.


Nonostante celebri l’allegria, Charlot resta un essere tragico, un personaggio pieno di speranza ma di un tipo di speranza “che non spera nulla, che si alimenta della propria incertezza: la speranza creatrice, quella che estrae la sua stessa forza dal vuoto, dall’avversità, dall’opposizione, senza per questo opporsi a nulla”.
Credo che quello che infantilmente l’idea del clown mi abbia sempre suscitato, ovvero quel non so che di attrattivo e seducente ma allo stesso tempo di repulsivo e orrorifico, faccia parte di quel substrato culturale
tragicomico che circonda da sempre i personaggi più iconici del circo.
Eppure, i tanti che hanno sviscerato meglio la faccenda (e nel libro vengono citati tra gli altri nientepopodimeno che Hannah Arendt, Walter Benjamin, Fernand Léger, Edgar Degas), hanno colto nelle movenze di Charlot “un germoglio di utopia, di tenace fiducia nelle possibilità dell’immaginazione e del cambiamento che è sempre pronto ad innestarsi altrove” e ancora di più, “il pieno potere conferito all’immaginazione, in quanto capace di mobilitare le nostre risorse più potenti e segrete a salvaguardia della libertà”. Charlot dunque come paladino dei nostri sogni e delle nostre speranze!

Ma oltre a lui l’autrice ci porta a scoprire molti altri interessanti esempi, più o meno noti, di altrettanti
personaggi e scrittori che si sono rapportati con il tema del circo.
Il tratto che accomuna tutte le storie che vengono narrate è la sovrapposizione tra l’idea di circo e quella
di casa: i due concetti diventano sinonimi.
C’è la cavallerizza che al circo ci lavora e che, dopo una serie si peripezie, intuisce con piena consapevolezza contemporanea (magari!) – quando invece il libro è ottocentesco – che “non le serve più alcun abbellimento in uso per donna di spettacolo, o dama di società e perfino per una ben ordinata massaia: le basta il suo frustino d’amazzone, che la lega al suo cavallo e dunque alla sua arte di cavallerizza”.


C’è invece chi al circo ci nasce ma poi se lo lascia alle spalle come si fa con una casa troppo opprimente
da cui è necessario prendere distanza, salvo poi riavvicinarsi per vie traverse come spesso accade nella
vita. E’ il caso di Aglaja Veteranyi, tragica autrice di due libri autobiografici incentrati sui rapporti conflittuali tra i componenti della sua sgangherata famiglia circense.
Per altri ancora il circo è la scoperta di un porto sicuro a cui si approda dopo anni di lotte e patimenti nel
tentativo di esprimere se stessi. Il tendone rappresenta quella dimensione domestica di accoglimento e
comprensione priva di giudizio dove ognuno può ritagliarsi il ruolo che gli è più consono e identitario.
Così nei racconti di Angela Davis ai personaggi viene offerta una seconda possibilità, uno dei principali
talenti del circo.
E proprio Maria Vittoria Vittori ci ricorda che “il circo – proprio per la sua lunga storia ed il suo
connaturato nomadismo – è territorio di convivenza e mescolanza di lingue, discipline e culture diverse; è
il luogo della sfida, in cui il sogno dell’impossibile, calandosi nella realtà e trasformandosi nell’esercizio
quotidiano, diventa ricerca del possibile.” I personaggi possono quindi rinascere in altra forma, più simile
a quella che continuamente risuona in loro. Perché, per citare anche lo psicanalista Aldo Carotenuto, il
circo è “la messa in scena riturale del funzionamento della nostra psiche, delle nostre paure e del nostro
coraggio, delle nostre sfide e delle nostre sconfitte”.


C’è chi infine al circo ci nasce, ci cresce e ci muore, come la grande Moira Orfei. Piccolo inciso: di lei nel libro è riportata un’iconica fotografia di Mario De Biasi dal titolo Gli italiani si voltano scattata nel 1954, che per fantastica coincidenza mi è capitata tra le mani proprio qualche giorno fa in libreria nella forma dell’immagine scelta per la copertina dell’edizione Einaudi del libro di Francesco Piccolo L’animale che mi porto dentro (come faccio ora a non leggerlo?).
Alla fine di ogni capitolo l’autrice ci snocciola una serie di referenze bibliografiche che, per un neo appassionato che volesse approfondire, sono manna dal cielo. Perchè il bello dei libri è sempre il fatto che sono porte su altri mondi, tanti quanti la nostra attenzione e sensibilità riescono a cogliere. Il tendone a strisce, a sua volta, è un grande contenitore immaginifico di fatica, sudore, polvere, fuoco e fiamme, voli pindarici e rovinose cadute, lacrime e sangue, risate e speranza… se abbiamo l’ardire di arrivare in fondo alla strada di una fatiscente periferia metropolitana e comprare un biglietto possiamo goderci lo spettacolo della vita.
E quindi alla fine mi tocca pure ringraziare Davide per continuare a tenere aperta quella porta.

Recensione di Mara Pietta – architetto