Per quanto mi sia noto, nessun grande spettacolo di circo, se davvero riuscito, risulta completamente privo dell’elemento comico, nemmeno le performance più sperimentali di circo contemporaneo. Quando la comicità è del tutto assente o, più spesso, mal funzionante, in generale abbonda la mediocrità. Che poi sia di primaria importanza o solo un complemento dipende dal tipo di spettacolo, dalla poetica. Esistono spettacoli che hanno lo scopo prioritario di far ridere e altri dove la risata è solo un momento di sollievo, una pausa ristoratrice, dopo l’emozione di numeri altamente adrenalinici o poetici.
Ma come si fa a far ridere?
Tutti conoscono la figura del clown, che classicamente svolge questa nobile funzione, ma il discorso oggi si fa più articolato, perché esistono anche altre soluzioni, come il cabaret.
Nel circo classico spesso la risposta è cercata nella tradizione; qualche volta si ravvede il bagliore acceso della grande clownerie, altre volte il lumicino spento del lavorante buttato impunemente in pista, che avrebbe nel farsi prendere a calci l’unico modo per far ridere il pubblico.
Resta la domanda. Come si fa a far ridere? Qual è il segreto?
Il problema è che di segreti ce ne sono tanti, troppi.
E chi possiede questi tesori, difficilmente li potrà svelare. Non sempre per gelosia, più semplicemente perché tutto quanto è inerente la risata è difficile da spiegare a parole. Esiste chi ha un talento innato, si siede su una sedia in mezzo alla pista, guarda il pubblico e già fa ridere, solo per la presenza scenica, per il carisma, per come si è conciato e come si pone. Costui difficilmente potrà dirvi come fa. È mestiere e talento.
Esistono anche le scuole, tante e diverse, che il talento lo affinano e lo fanno fiorire. Chi ha la fortuna di costruirsi un’autentica formazione nel mondo della risata sa certamente quanto sia difficile rispondere alla domanda riportata qui sopra. Più d’un canuto maestro si metterebbe comicamente le mani tra i capelli.
Qui proverò a dare qualche spunto, ad aprire qualche via.
Chi volesse provare a capire di più come si fa ridere, ovvero i meccanismi della risata, potrebbe partire da un saggio scritto più di un secolo fa da Henri Bergson, filosofo francese e grande pensatore, titolato appunto “Il riso”. Bergson si cimentò nel cercare le chiavi nascoste della risata.
La sua opera è una miniera di spunti di riflessione sull’argomento.
Il filosofo nota per esempio come il nostro riso sia sempre il riso di un gruppo, come abbia immancabilmente un significato sociale: “Per quanto franco lo si supponga, il riso nasconde sempre un pensiero d’intesa, direi quasi di complicità, con altre persone che ridono, reali o immaginarie”. Identifica anche come il comico esiga, per produrre tutto il suo effetto, di qualcosa che assomigli a un’anestesia momentanea del cuore: si può ridere di una persona che ci ispira pietà o affetto, ma sarà necessario, per qualche istante, dimenticare quell’affetto e far tacere la pietà.
La ricerca è ambiziosa e aspira a identificare le fonti stesse del comico, i naturali pendii del riso, come una certa meccanica rigidità laddove avremmo voluto trovare l’agilità o la flessibilità. Queste rigidità che fanno ridere non riguardano solo il corpo: il personaggio comico pecca anche per ostinazione di spirito o di carattere, per distrazione, per automatismo. Sono innumerevoli gli spunti pratici che si possono trarre dalla sua analisi, che è molto articolata e piena di esempi. Spingendosi più lontano, Bergson arriva all’analisi della follia che fa ridere, che è una forma speciale di follia, completamente diversa dalla malattia mentale, che invece induce pietà e tristezza.
Verso la fine del saggio il filosofo arriva alla formulazione di uno strano teorema: “L’assurdità comica è della stessa natura di quella dei sogni”. Ridiamo di ragionamenti che sappiamo essere assurdi, ma che potremmo prendere per veri in un sogno. C’è una sorta di demenza tipica del sogno, contraddizioni che sono naturali per il sognatore e sconvolgenti per la ragione durante la veglia.
Chi volesse spingersi ancora più lontano su questo fronte dovrebbe attingere a Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, che ha scritto molto sul riso. Uno dei saggi più rilevanti è titolato “Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio”, edito del 1905.
Per concludere, come si fa a far ridere? Non c’è una risposta semplice alla domanda, ma c’è chi ha azzardato delle risposte intelligenti, quasi delle regole generali, anche se complicate da molte sottigliezze. Far ridere è una cosa seria; il talento non si può comprare, ma qualche buon libro su cui meditare certamente sì.