Moira e la leggenda del circo qui la magia diventa scelta di vita

Avatar David Colletta

Avrebbe potuto essere Sofia Loren, decise di diventare Moira Orfei. Walter Nones, invece, sarebbe stato ingegnere navale, se avesse dato retta al padre. Tra i due fu l’amore, poi venne il circo. Si sa, ci sono storie che non si possono evitare. Ci sono storie che inseguono gli uomini finché non si compiono, perché sono il destino.

Questa favola comincia nel 1962 con la partecipazione al primo Festival mondiale del Circo e si snoda attraverso gli anni, percorre in lungo un tratto della storia non solo italiana (nel 1977 Moira Orfei restò bloccata in Iran con 100 artisti e 50 animali, e l’Achille Lauro, dopo imperscrutabili temporeggiamenti andreottiani, la andò a riprendere), solca l’immaginario e arriva fino a qui, San Polo, novembre 2013.

Stiamo parlando di una macchina da sogni lunga 70 autotreni, che dà da mangiare a 150 persone, con cinquant’anni di passione e di scuola alle spalle; macchina che non si ferma mai: dopo Brescia farà tappa a Milano e sarà a Roma per tutto il periodo natalizio. «Del resto, questo non è un lavoro, ma una scelta di vita. È un richiamo irresistibile. Difficile spiegare, ma… La pioggia sul tetto del caravan di notte, la vita in comune, gli animali come compagni di vita e di lavoro. È bellissimo vivere in prima persona gli eventi climatici, la non stanzialità e tutti i sacrifici e le bellezze che comporta. Sa come si chiama, questo, nel nostro ambiente? Avere la segatura nel sangue».

A regalarci questo lieto cortocircuito ematico-esistenziale è Luca Alghisi, nipote di Moira e ufficio stampa dello strepitoso, immenso baraccone. «Spiace solo – confida – che alcune società circensi affittino il nome da componenti di questa famiglia e portino in giro spettacoli che non hanno nulla a che vedere col nostro, per qualità e per livello artistico. Ma poi diciamocelo: Moira è il circo, il circo è Moira, punto. Pensi che una volta ipotizzammo di togliere il cognome dai manifesti e di lasciare solo il suo nome. Del resto la conoscono tutti, bambini e anziani. Con la gente abbiamo rapporti decennali. Giusto ieri, la mail di un bresciano che diceva: mi ricordo di voi, vent’anni fa facevate gli spettacoli allo stadio Rigamonti».

Moira non è solo una faccia e quelle sue ciglia corvine, da fattucchiera di fiaba. È un simbolo. «Il suo volto fa parte di questo Paese come il manifesto del Campari», aggiunge Alghisi. «Il circo è cultura, e la cultura va tutelata. Invece a volte il reperimento di aree diventa una faticaccia e le leggi comunali sono di ostacolo. Ma quel che conta è che il cuore del nostro spettacolo è vivo. Il nostro fiore all’occhiello? Stefano Orfei, vero erede di suo padre, addestratore. Presenta un numero con le tigri che gli ha fatto vincere tre volte il massimo riconoscimento al Festival del circo di Montecarlo».

Quando manca mezz’ora allo spettacolo, due figurette svelte, in marsina colorata e con le facce infarinate, balenano e scompaiono tra i cavi d’acciaio dei tendoni – un sogno? -. All’orizzonte dei tir-toilette, oltre fitte graticole di transenne, due cammelli sventolano la coda. Dentro il tendone, attesa, e buio soffuso di luce rossa; in alto, stelle cangianti. Le ragazze di sala fumano sedute, i becchi delle loro redingote purpuree sfiorano terra. Hanno occhi bistrati, sguardi ammalianti, e soffiano fuori uno sbuffo come di borotalco. Mandibole marcate e occhi allungati, fanno sognare, lascito somatico di chissà quali steppe sconosciute. Poi tutto comincia.
I bambini trattengono il fiato. Musichette da carillon e marcette alla Nino Rota, tempo binario, trilli e tamburi. Acrobati e ballerine esplodono dal buio in mezzo alla pista. Un carosello equestre, zebre, elefanti, un ippopotamo. Verso metà spettacolo, un leone bianco, fulgido fenomeno. Questo è il circo: il luogo del fenomeno umano e animale, un regno di fracasso e di gioia. Bello l’acrobata, quando finito il numero si erge e mostra il volto sfrontato, esige l’applauso e manda baci, infine guizzando via, scivolando misterioso tra inaccessibili, morbidi varchi.

«Siamo una piccola città viaggiante, che vive la solidarietà. Qui, se piove, piove per tutti. Se un animale sta male, facciamo la notte in bianco. Siamo una comunità multietnica. Ci sono artisti francesi, tedeschi, russi, un esempio di civiltà e convivenza. Il circo è rispetto, tolleranza, lavoro. Società patriarcale che tramanda tradizioni». Poi Alghisi fa una pausa. Sorride e conclude: «Sa cosa penso? È dietro le quinte, che c’è lo spettacolo più bello di ogni spettacolo».