La figura del clown con il trascorrere del tempo è molto cambiata nell’immaginario collettivo, e oggi non è più semplicemente legata alla spensieratezza e al divertimento.
Per la verità non lo è mai stata del tutto: il clown ha sempre avuto un potenziale spaventoso, anche solo perché cambiare con il trucco i tratti del proprio volto in chiave eccessiva e grottesca significa stravolgere la normalità, aprire possibilità impreviste, che possono essere inquietanti per gli animi più sensibili.
Tuttavia, il pagliaccio immaginato da Stephen King come manifestazione di IT, il terribile assassino di bambini dalla genesi soprannaturale, ha certamente messo in piena luce i potenziali aspetti spaventosi del clown. Altrettanto ha fatto la nascita del personaggio di Joker, il folle clown criminale antagonista di Batman, alla ribalta in numerose interpretazioni cinematografiche di successo.
Nel mondo del circo i clown normalmente non vogliono fare paura: vogliono fare ridere, anche se solo quelli bravi ci riescono. La clownerie si differenzia dal cabaret e da altre forme d’intrattenimento divertente: è un’arte peculiare, a sé stante anche se contaminata da mille altre arti – come la danza, il canto, la musica, la giocoleria – e vive di mimica, di gestualità, di riferimenti estetici e artistici sedimentati nel tempo. Esiste una storia della clownerie. E nessuno può inventarsi clown: è un mestiere difficile, che richiede grandi abilità, esperienza, studio.
Non c’è nulla di più imbarazzante, almeno per me, di un clown dilettante che non fa ridere, di quelli che lasciano il pubblico ammutolito, con il volto tirato da un sorriso di circostanza.
In effetti il clown è simile a un musicista dell’anima: se pizzica la corda giusta e azzecca una certa frequenza emotiva, fa ridere in modo incontenibile e misterioso. Perché scoppiamo a ridere se vediamo qualcuno scivolare su una buccia di banana nel modo giusto? È un mistero psicologico. Potrebbe essersi rotto l’osso sacro, eppure ridiamo! Idem con uno schiaffo tra clown, dato con il giusto tempo comico: fa davvero ridere. Eppure è un atto violento, di per sé per nulla divertente.
C’è una sorta di magia della risata, una certa nota emotiva. Se questa nota è più alta o più bassa cambia tutto: il clown può mettere malinconia, oppure fare paura; se questa nota è stonata si creano imbarazzo e disappunto tra il pubblico.
Alcuni grandi clown pizzicano varie corde del cuore, e lo fanno volutamente, come creando accordi: vogliono far scaturire la risata, ma in un certo modo speciale, dopo aver fatto sentire un pizzico di malinconia o la giusta dose di timore.
È un gioco rischioso, un’arte difficile, perché implica uno stretto rapporto con il pubblico. Si tratta di un uomo solo e di una vasta platea, composta da singole persone, ognuna diversa dall’altra. In questo pubblico le risate sono contagiose, ma sono contagiose anche le altre emozioni, ed esiste sempre un piccolo margine d’imprevedibilità, una circostanza insapettata. Il clown fa risuonare le corde psicologiche degli spettatori, che vibrano più o meno all’unisono, e crea la sua musica emotiva, che ha il suo apice nella risata collettiva, cristallina e liberatoria.
No, i grandi clown non fanno solo ridere. Troppo semplice.
Fanno più precisamente ridere risolvendo più o meno consapevolmente le nostre paure e malinconie, esorcizzando i nostri fantasmi, i nostri fallimenti e le nostre angosce. A ben vedere non c’è nulla di strano che i clown possano spaventare o mettere tristezza: queste emozioni spiacevoli, implicite e segrete, sono le premesse necessarie all’obiettivo principale della loro arte: la gioia liberatoria. Forse lo stesso discorso vale per ogni forma di grande comicità, solo che nella figura del clown gli aspetti spaventosi e malinconici sono stati meglio identificati ed isolati. I clown di domani dovranno inevitabilmente tenerne conto.