L’insegnante di russo

Avatar Angelo D'Ambra

Alla finestra fioccava, ancora. Fatto insolito vedere Los Angeles bianca come San Pietroburgo, gelida come le acque della Neva. Eppure il freddo pungente portava con sé un calore cordiale, un afflato di familiarità. Il vetro impedì ad ogni immaginazione di correr fuori a giocare con la nostalgia e fu crudele, le restituì l’immagine d’una donna seduta nel soggiorno, il profilo gracile, lo sguardo fondo, le pupille accese d’intenso e le gambe sfigurate e imbruttite da vecchie ferite che non le davano più tormento, da tormenti che non la ferivano più. Senza sradicare lo sguardo da quel languido altrove di pensieri, annuì alla sua allieva che cantilenava la declinazione del verbo кричать.

Certi pensieri erano diventati da tempo ripetitivi. Le affollavano la mente avvicendandosi, attorcigliandosi e schiacciandosi l’uno sull’altro in visioni agrodolci. Chissà dell’orso che ne era stato. Magnifico esemplare di nero asiatico quell’orso, sempre mansueto, sempre, malgrado ciò inaspettatamente aggressivo. Quella sera del 10 aprile 1935, i suoi occhi avevano ipnotizzato tigri, puma, leopardi e leoni. Non lui.

Rise, ricordando quando, ad un giornalista che le aveva chiesto se non avesse paura nella gabbia con le bestie selvagge, aveva risposto: “E perché? Sono stata in una gabbia con i bolscevichi!”. Di paura ne aveva, paura pura, terrore, ma dissimulava. Il pubblico doveva credere in lei, nei suoi poteri, nella sua eredità, nelle sue facoltà occulte, nella sua storia. Sarebbe stato forse meglio continuare a ballare in quell’odioso spettacolo al Circo Busch, inscenando l’assassinio del padre? No, né i pony del Cirque d’hiver le avrebbero garantito il denaro necessario per prendersi cura delle figlie avute dal matrimonio con quell’imbroglione di Boris.

Leoni, orsi e tigri rappresentarono l’uscita dall’avvilimento, dalle difficoltà della marginalità. Una fase di decostruzione e ricostruzione della propria esistenza. Il riconoscere se stessa, i suoi limiti e la sua capacità di fronteggiarli, ed era tornata a combattere, tenace, inarrendevole.

Quando l’allieva porse un elegante saluto, si destò da ogni pensiero, la fissò. Aveva l’età della granduchessa Olga, ma non era bella quanto lei. L’ora era trascorsa. La lasciò andare con un arrivederci e tornò  a vagabondare con la mente.

L’allieva raccolse i libri e prima di andare levò gli occhi contro il vecchio manifesto circense che spiccava incorniciato nella stanza. Raffigurava la sua insegnante con un leone dalla folta criniera e vi si leggeva: “Maria Rasputina, figlia del famoso monaco pazzo le cui imprese in Russia hanno stupito il mondo“.

La biografia di Maria Rasputina

Questo racconto rievoca la storia di una donna dimenticata, la figlia di una delle figure più controverse della storia russa, il famoso Rasputin. Parlo di Matryona, o Maria come preferì farsi chiamare da adulta. Cresciuta alla corte dei Romanov, dove strinse una forte amicizia con le zarine Olga, Tatiana, Maria e Anastasia, sue coetanee, visse tutte le traversie che coinvolsero il padre, sino al giorno in cui il cadavere del mistico, freddato da un colpo di pistola, fu lasciato congelare nelle gelide acque della Neva.
Maria aveva diciassette anni e sposò il suo successore a corte, Boris Soloviev, teosofo, spiritista e mesmerista, figlio di Nikolai Soloviev, tesoriere del Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa, un matrimonio che – a quanto si sostenne – fu voluto da Rasputin in persona, tramite una seduta spiritica. Lo scoppio della rivoluzione li costrinse a fuggire. I due approdarono a Praga, a Vienna, infine a Parigi, vivendo di stenti e imbrogli. Boris fu partecipe di diverse truffe, sostenendo che alcune ragazze fossero le figlie dell’ultimo Zar. Si ammalò di tubercolosi e morì nel 1926, lasciando la moglie con due bambini.
Maria aveva studiato danza a Berlino ed iniziò a guadagnarsi da vivere come ballerina di cabaret. Il suo nome fungeva da grande richiamo e così, nel 1929, il Circo Busch la assunse per uno spettacolo di danza che rievocava l’omicidio del padre con attori che impersonavano lui e i suoi assassini. Fu un’esperienza angosciosa per la donna, che si trovava costretta a rivivere il dramma della morte del padre per sbarcare il lunario. Appena poté, cambiò aria. Nel 1933 si esibì al Cirque d’hiver con i pony, due anni dopo era con l’Hagenbeck-Wallace Circus, all’epoca secondo solo al Ringling Bros, come addomesticatrice di leoni.
Nella gabbia, la sua carriera decollò. Lungi dal sentirsi imbarazzata dalle voci che circolavano su di lei, Maria Rasputin riuscì ad usare, nel suo interesse, l’immagine che il mondo aveva di Rasputin. Sui cartelloni campeggiava il suo nome con una definizione esplicita: “figlia del famoso monaco pazzo le cui imprese in Russia hanno stupito il mondo”. Gli impresari arrivarono persino a dire che eseguiva sulle bestie feroci magie ed ipnosi nello stesso modo in cui suo padre aveva dominato gli uomini.
Passò al Ringling Circus e poi al Gardner Brothers, il pericolo, però, era dietro l’angolo e il 10 aprile 1935, in una performance con due leoni, due tigri, tre orsi, due leopardi e due puma, fu aggredita da un orso nero asiatico e dovette così ritirarsi.
Visse il resto della sua vita a Los Angeles, guadagnandosi da vivere come insegnante di russo e operaia. Si spense nel 1977.