Una dama dall’enigmatico volto ellittico incede su un pavimento a scacchiera, rientrando da una notte senza tempo. Tra i bagliori di vesti vaporose, regge, nella mano destra, un retino acchiappa farfalle e, nella sinistra, una piccola gabbia in cui è prigioniera una mezzaluna tersa. È il soggetto di “Cacciatrice di stelle”, tela del 1956 della pittrice Remedios Varo che nasconde sentimenti e storie di costrizione. L’autrice si ritrae nei lineamenti della figura femminile, viso ovoidale, grandi occhi e naso lungo e ritto. Come un imperatore medioevale, col retino a fare da scettro e la gabbia da globo crucigero, sembra denunciare il potersi ritagliare un posto nella realtà degli uomini solo tenendo intrappolata la sua essenza, la luna, simbolo archetipico della coscienza femminile. Il tema ritorna anche in “Porridge stellare”, realizzato due anni dopo.
Qui una donna, sola in una torre poligonale circondata dalle nuvole, nutre la luna in gabbia con mistura di stelle, alimenta la sua femminilità schiacciando i suoi sogni. In un medioevo immaginario, la donna di Varo appare distante sia dall’oggetto del desiderio dei cavalieri, sia dalla musa dei poeti, ciò che la pittrice stessa era stata per i suoi due mariti. È un autoritratto da strega, incantatrice, alchimista che si studia e cerca di trovare se stessa, come in “La chiamata” del 1961, tela in cui una luminescente donna arancio attraversa il cortile di un castello, sfilando tra figure smorte, portando con sé due strumenti alchemici, un’ampolla con liquido rosso sangue nella mano destra ed un mortaio al collo (allegoria del suo cuore), e i suoi capelli s’innalzano come una fiamma fluida sino ad allacciarsi ad un pianeta da cui forse trae energia. La protagonista di questa tela risponde al richiamo della sua natura cosmica, alla necessità di trovare consapevolezza di sé e dei poteri che appartengono al suo genere. Così la pittrice descrisse il quadro: «Una donna piena di luce, elettrica e luminosa, piena di energia e splendore interiore, risponde con determinazione ad una chiamata misteriosa. La strada è disseminata di silenziosi testimoni di pietra che sono estranei e incapaci di capire cosa sta succedendo. È legata al cosmo e ai suoi disegni attraverso i suoi capelli, il mortaio dell’alchimia le pende dal collo, ma non per mescolare sostanze e trame, ma per trascendere se stessa».
Le opere di Remedios Varo ritraggono immagini muliebri solitarie, enigmatiche, in bilico tra subordinazione, trasformazione e liberazione. Varo aveva frequentato la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando di Madrid, conosciuto García Lorca e Dalí e sposato il pittore Gerardo Lizárraga. Con lui era stata a Parigi, aveva incontrato l’ambiente bohémien dei circuiti artistici francesi e al ritorno aveva preso a vivere a Barcellona, lavorando come disegnatrice pubblicitaria. Il contesto culturale e politico di quella città la allontanò presto e definitivamente dal marito. Le sue attenzioni furono catalizzate dai surrealisti catalani coi quali animò il Gruppo Logicofobista, i cantori della fobia del raziocinio che cercavano di rappresentare gli stati mentali usando forme suggestive. Allo scoppio della guerra civile, fornì protezione e nascondigli agli antifranchisti e così conobbe il poeta Benjamin Péret, militante prima del POUM poi degli anarchici della Colonna Durruti, e lo sposò. Con quest’ultimo, nel 1937, fuggì in Francia, dedicandosi a pittura, psicologia, persino a cartomanzia e pensiero alchemico, nonché a strambi esperimenti surrealisti come il passeggiare tra le strade piene di gente vestita da torero o l’inviare lettere a sconosciuti i cui nomi sceglieva a caso dall’elenco telefonico. Quando i tedeschi occuparono Parigi, fu arrestata e, dopo il rilascio, insieme al suo compagno, fuggì prima in Marocco poi in Messico. Qui i due presero a frequentare Octavio Paz, Luis Buñuel, Frida Kahlo, Diego Rivera, lei si legò soprattutto a Leonora Carrington. Varo si separò da Péret nel 1947 e, dopo un viaggio in Venezuela come illustratrice entomologica di una spedizione scientifica antimalarica, si legò ad un rifugiato politico austriaco passato per Dachau e Buchenwald, il musicologo Walter Gruen. Lo sposò nel 1952. Fu lui il solo che la spronò davvero a dedicarsi alla pittura, oltre fini puramente commerciali. Così Varo riuscì a perfezionare il suo originalissimo stile onirico che insisteva sull’autoanalisi e il ricorso ad effigi ultraterrene e magico-mitologiche.
Tra i dipinti che più rivelano il temperamento creativo, i grandi interessi di Remedios Varo e la sua idea di donna alchimista sicuramente vi è “Il giocoliere” (anche noto come “Il mago”), del 1956. Nella tela troviamo un’artista barbuto col volto dipinto su madreperla intarsiata che, a bordo di un bizzarro carro, si destreggia con sfere di luce, tra oggetti di magia. E’ colui che ha raggiunto l’illuminazione, le fasi della trasformazione alchemica sono in lui ultimate: sul corpo scuro (nigredo) veste una tunica rossa (rubedo). Al contrario, la massa di figure sonnolenti, priva di identità personale, è avvolta in un anonimo mantello grigio. Una donna dagli occhi chiusi siede nel carro, quasi nascosta tra le bestie. E’ il suo femmineo, la forza interiore del giocoliere, che lo guida attraverso una connessione impalpabile, una proiezione medianica, esplicitata dalla congiunzione del blu, colore delle profondità contemplative: blu è il vestito della donna e blu è il cappello a punta del giocoliere. Il giocoliere è lei, donna alchimista che trasmuta se stessa in forme superiori, padrona della sapienza (il gufo), della materia (la capra), e della volontà (il leone).
Varo dipinge figure femminili protese verso – o al centro di – un mondo di corrispondenze nel quale esse trovano libertà e conoscenza. Queste donne, spesso anche in sembianze androgine, sono moderne e al contempo antiche. Sono tutte protagoniste di missioni eteree, impegnate in processi di trasformazione interiore. Vivono momenti sospesi nel tempo e nello spazio, la cui enigmaticità è accresciuta dal tratto fiabesco del disegno. Popolano contesti medievali (la società maschilista), case e cucine divenuti laboratori occulti (l’intimità nella quale coltivano la loro libertà), ambienti esterni irreali (simbolo del viaggio e di indagine). E’ il linguaggio ermetico e sempre attuale della magia.
Tutto è ribadito in “Creazione degli uccelli” del 1957. Una donna piumata, con le fattezze di una civetta, uccello sacro a Minerva e simbolo di saggezza, siede alla scrivania, impugnando un pennino collegato al suo cuore tramite un violino. Alla sua destra, da un vaso alchemico a forma di uovo fuoriesce la tavolozza dei colori primari coi quali disegna volatili che prendono immediatamente vita al chiaro di luna riflesso da quel prisma triangolare che Newton aveva usato per separare la luce nei colori dello spettro. Sullo sfondo della stanza, due krateres si alimentano l’un l’altro: sono i vasi comunicanti, per Breton simbolo di uno «scambio costante che deve prodursi nel pensiero tra il mondo esteriore e il mondo interiore, scambio che richiede l’interpretazione continua dell’attività di veglia e dell’attività di sonno». A differenza dai procedimenti surrealisti teorizzati dal critico francese, però, ella non affida la ricerca all’automatismo o ad altri metodi che convergono nell’esclusione del cosciente, ma ad un percorso alchemico. Varo nella tela si mostra come una donna emancipata e rasserenata che crea bellezza e vita con la magia, una strega, una creativa, un’anima che ha trovato la sua consapevolezza con la congiunzione di colore, luce, suono, scienza e arte.
Paradigmatico è “Esplorazione delle sorgenti del fiume Orinoco” del 1959, dove Varo pare investigare un potere femminile segreto e rarefatto. È la narrazione di un itinerario nella trascendenza, nel rinnovamento, alla ricerca di una illuminazione. In una suggestiva evocazione di vagabondaggi onirici, la pittrice diviene un’intrepida esploratrice fluviale, vestita come un uomo, a bordo di un panciotto unito ad una bombetta nel formare una navicella alata. I suoi occhi puntano dritto ad un bicchiere traboccante di liquido magico, posto su un tavolo nell’incavo di un tronco d’albero. È proprio quel Graal la sorgente del fiume venezuelano, il viaggio è metafora della ricerca spirituale, il bicchiere è il sapere occulto. La donna nascosta e sottomessa del mondo maschile, consegnata alla maternità ed alla vita domestica di cucine e tessitura, ha trovato se stessa.