Chiunque abbia riflettuto seriamente sull’esperienza umana si è trovato prima o poi ad affrontare il mistero della memoria, ovvero quella straordinaria capacità con cui il nostro cervello codifica, immagazzina, consolida e richiama le esperienze che viviamo.
Non parlo dell’ambiguo e troppo spesso aleatorio concetto di memoria degli storici, ma dei processi mentali che ci permettono di ricordare personalmente.
Cosa resta nella nostra memoria dopo aver visto uno spettacolo di circo?
Pochi si rendono bene conto della complessità della domanda; gli artisti, ahimè, in generale non si pongono nemmeno il problema, non rendendosi conto che il loro successo o fallimento dipende solo ed esclusivamente da questo, da come la loro arte rimane impressa nella memoria degli spettatori, ammesso che resti impressa, possibilità non scontata.
Per scrivere le mie recensioni, che con il passare degli anni si sono fatte numerose, ho sempre utilizzato un metodo preciso: le redigo il giorno successivo, non prima e non dopo, spesso in treno o in aereo, sulla via del ritorno. Ci dormo sopra una notte. Aspetto di rielaborare il ricordo o, per dirlo in termini più precisi e scientifici, attendo che avvenga il processo di consolidamento della memoria.
Se scrivessi subito, a caldo, le recensioni sarebbero diverse, così come se le scrivessi dopo un mese o dopo un anno. Scrivere immediatamente mi permetterebbe un maggior dettaglio, ma non mi è mai interessata la cronaca esaustiva, spesso puntigliosa e pedante. Preferisco aspettare e richiamare alla mente un ricordo lievemente più tardivo, quasi fosse un frutto maturo, perché credo sia quello che conta davvero. Se si presta attenzione a sé stessi ci si accorge del cambiamento: le prime impressioni lasciano, con il tempo, spazio a memorie diverse, più stabili.
Occorre capire, almeno a grandi linee, come funziona la nostra memoria. Per prima cosa c’è un processo di codifica, che avviene quando acquisiamo le informazioni, cioè mentre guardiamo lo spettacolo. I ricordi iniziano a formarsi da subito. Perché la memoria sia durevole e accurata serve un processo preciso, che gli psicologi Fergus Craik e Robert Lockart hanno definito “codifica profonda”. Questo processo mentale avviene prestando attenzione e associando ciò che vediamo alle nostre memorie precedenti. La codifica è più solida se siamo motivati a ricordare o, più importante ancora, se abbiamo un particolare coinvolgimento emotivo. Ricorderemo meglio e in modo duraturo ciò che ci ha emozionato. Per questo alcune memorie restano indelebili e altre sfumano nelle nebbie del tempo. Non si creda sia una questione di spazio mnemonico: scientificamente parlando, oggi, si ritiene che, per quanto riguarda la conservazione dei ricordi a lungo termine, non vi siano limiti alla capienza del cervello umano. Sarebbe complicato parlare dei meccanismi neurobiologici che permettono il consolidamento dei ricordi, ovvero la trasformazione di memorie labili in forme più stabili, ed esula dagli scopi di questo articolo, ma è importante sapere che questi processi esistono e che sono determinanti per le nostre vite.
Altrettanto saliente è la comprensione che il richiamo dei ricordi è un processo costruttivo, pertanto soggetto a distorsioni e modifiche: richiamare un ricordo vuol dire necessariamente ricodificarlo, non è come trasmettere nella propria mente un film sempre uguale, archiviato e immutabile.
Nel caso di chi scrive, questo processo, già di per sé costruttivo, diviene creativo, soprattutto se si cerca di evocare nell’immaginazione dei lettori un dipinto a colori vividi. Tuttavia, che conta davvero, non è il ricordo del critico o del semplice cronista o dell’accolito che scrive per pubblicizzare, ma quello di tutto il resto del pubblico.
Nel circo classico, che vive di una successione di numeri, il giorno successivo ricorderemo immediatamente alcune performance che ci hanno colpito: richiameremo benissimo alla memoria i momenti che ci hanno emozionato; alcuni numeri invece li ricorderemo a fatica, ci dovremo sforzare un istante, e alcuni finiranno comunque nell’oblio. Forse rammenteremo dei dettagli, certe musiche, quel particolare costume, un fascio di luce, e dimenticheremo molto altro, tutto quello che la nostra mente ha involontariamente considerato irrilevante, inutile da immagazzinare.
Nel circo contemporaneo, dove c’è spesso una qualche narrazione o comunque un quadro tematico preciso (ma sappiamo che i quadri tematici ormai sono proposti anche dal grande circo d’ispirazione classica), il discorso è diverso: ricorderemo, oltre ad alcuni numeri singoli, la narrativa, l’atmosfera e i contenuti proposti, che sono parte integrante di un insieme artisticamente coerente. Il circo contemporaneo è in generale più semplice da ricordare, e questa è con ogni probabilità una delle chiavi del suo successo: uno spettacolo non frammentario e coerente resta più facilmente impresso. Soprattutto però è l’emotività a cambiare i processi di codifica profonda della memoria: il circo che emoziona resta inciso nell’anima; il circo dei mestieranti, incuranti dei sentimenti del pubblico, è facilmente dimenticabile, evapora come nebbia al sole. Magari resta impresso per il valore squisitamente tecnico in uno sparuto manipolo di addetti ai lavori, motivati a ricordare e con specifiche memorie remote da associare, ma non nel vasto pubblico. Chi fa il circo e gli esperti di circo non ricordano allo stesso modo dei semplici spettatori, che sono la larghissima maggioranza, né necessariamente gli stessi frangenti.
Per concludere, l’arte circense, come tutte le arti performative, dovrebbe cercare di creare ricordi indelebili, e l’unico modo per farlo è proporre un’arte segnante, che colpisca nel profondo il vasto pubblico, coraggiosa e coerente, soprattutto in grado di comunicare emozioni autentiche, unico antidoto all’oblio, viatico per l’eternità.