Rivedere la strategia, diversificare gli investimenti, aggredire nuovi mercati, entrare in borsa. Cosa c’entra con il circo?
Correva l‘anno…Era il 1984, nel pieno decennio di sogni, eccessi e stravaganza. Guy Lalibertè fondò una compagnia nuova, diversa, dal sapore antico e dalle idee futuriste. Negli anni ’90 il cirque du Soleil era già affermato. Ma fu il Terzo Millennio a consacrarlo come fenomeno culturale, di tendenza e infine di massa.
Da idea di un manipolo di giovani è diventato riferimento per gli artisti, modello per gli operatori dello spettacolo, frustrante paragone per le compagnie tradizionali.
Da compagnia artistica alternativa a griffe dell’intrattenimento, brand di gadgets a tema. Insomma una multinazionale, che come tale non si trova più a fare i conti semplicemente con programmi e scelte artistiche, ma innanzitutto con mercati, bilanci e investimenti. E, quando serve, con licenziamenti. Il Wall Street Journal sotto le feste, quando i circhi tradizionali provano a rimpinguare le magre finanze, ha annunciato il trend negativo degli ultimi anni per il carrozzone canadese. E la soluzione sta nel puntare su musical e parchi tematici. Tutto naturale, logico e, in fondo, prevedibile. La piega affarista non sminuisce la portata del fenomeno né la validità del progetto. Da show must go on a business is business. Cambiano i termini, ma la logica di fondo è la stessa.
Solo, bisogna riconsiderare il Soleil, valutandolo per ciò che, adesso, è.
Sbagliato compararlo a minuscoli complessi familiari, fuorviante idealizzarlo come portabandiera del vero circo, ingenuo non accettarne la dimensione ‘industriale’. Perché sia chiaro, il problema non è che non staccano abbastanza biglietti per pagare giocolieri e costumisti. La compagnia è a un altro livello. Quello in cui i circo non c’entra più nulla.