Intervista al fondatore del Circo El Grito Giacomo Costantini

Avatar Giuseppe Calarota

Giacomo Costantini, è definito come “un curioso di creatività”. E’ il fondatore del Circo El Grito. Questa sua curiostà… ci ha “incuriostiti”, appunto, che vogliamo pubblicare una sua intervista fatta dall’inviato di Open Circus Nicola Campostori.

In occasione della prima volta a Milano del Circo El Grito, Open Circus ha intervistato il suo fondatore Giacomo Costantini, nella convinzione che una riflessione su questa interessantissima realtà italiana di circo contemporaneo possa contribuire a gettare le basi per un nuovo modo di concepire e vedere il circo e il teatro.

“Creatività vuol dire collegare cose diverse”. Per capire l’essenza del Circo El Grito basterebbe forse questa frase che il suo fondatore Giacomo Costantini ci ha detto durante l’intervista in occasione della prima volta del gruppo a Milano. Inizialmente decisa ad esibirsi nel suo chapiteau, la formazione, composta anche dall’acrobata aerea uruguaiana Fabiana Ruiz, ha poi optato per le assi del Teatro Menotti. Assistendo ai loro spettacoli si capisce davvero cosa significa parlare di contaminazione quando ci si riferisce al circo contemporaneo. Ibridazione non solo di generi, ma anche di forme espressive con un’unica, anarchica regola: seguire la propria curiosità.
“La compagnia El Grito” ci racconta Giacomo “nasce nel 2007 a Bruxelles dopo che avevamo girato mezzo mondo: eravamo stati a Berlino, in Sudamerica, in Russia”. L’Espace Catastrophe, un centro di residenza internazionale di circo, li sostiene offrendo una residenza e coproducendo il loro primo lavoro, 
Scratch and Stretch, che apre al Grito le porte dei circuiti professionali europei e permette alla compagnia di superare le duecento repliche. Il lavoro successivo, 20 Decibel, parte da presupposti scientifici per arrivare a riflessioni artistiche profonde: se 19 decibel è il silenzio, il titolo indica allora un suono minimo, come il respiro di una persona, che per esser percepito ha bisogno di un attimo di sospensione, ripartendo dal quale ciò che viene dopo assume un’importanza maggiore ed una ricezione più attenta da parte del pubblico. “La domanda è stata: come facciamo a salvaguardare il piccolo che si nasconde dietro l’evidente? La sostanza dietro l’evidenza?” Durante lo show Giacomo, sguardo ed espressività alla Johnny Depp, esplora le infinite possibilità del suono attraverso un uso virtuosistico della bocca e accompagnandosi con una tastiera travestita da macchina infernale, si rivolge al pubblico chiamandone il sostegno e strappando più d’una risata e “disturba” Fabiana (sua compagna anche nella vita) che cerca di conservare la compostezza esibendosi in numeri coi tessuti o a corpo libero. Potrebbero ricordare la classica coppia di clown, il Rosso e l’Augusto, che litigano amorevolmente, se il contesto non fosse molto lontano da quello del circo tradizionale. E’ proprio questo il punto: dove si colloca la loro performance? Danza? Teatro? Usare una pistola per far scoppiare dei palloncini è circo? Di certo, siamo in un territorio che confina con lo spettacolo popolare per eccellenza, quello delle fiere, dei lanciatori di coltelli. Nel prosieguo di questa lunga chiacchierata (Giacomo è un fiume in piena) scopriamo che forse la migliore risposta è che le questioni d’etichetta, quando c’è l’arte di mezzo, sviano dall’essenza che viene trasmessa al pubblico: a caratterizzare tutti gli spettacoli del Grito, oltre alle atmosfere poetiche (“Perché poetico è l’essere umano quando si mostra”), c’è infatti il dialogo tra i più svariati prodotti dell’intelletto umano. Il rapporto tra circo e musica, ad esempio, è senza dubbio centrale nell’estetica della compagnia, che ha intitolato emblematicamente Drums & Circus uno dei suoi show, frutto di una serie di accostamenti bizzarri che spiegano molto bene come si muove la fantasia di questa compagine: lo spettacolo non è solo “una versione rock di Bach” che unisce la passione di Giacomo per la classica e per i sintetizzatori alla tecnica di un formidabile batterista, ma vive anche dell’incontro in scena tra il buon Johann Sebastian e il padre del circo moderno Philip Astley (che sono quasi contemporanei), accompagnati da un gaucho della pampa uruguaiana armato di boleadoras, tanto per aggiungere stimoli ad un già caleidoscopico viaggio a tutto tondo nell’arte.
Il gusto per il sincretismo è innato in Costantini, che ha alle spalle un percorso particolare sfociato presto nell’ambito dell’intrattenimento dal vivo: “Ho incontrato l’arte di strada da ragazzino, a dodici, tredici anni e rimango folgorato da quello”. A sedici anni ha già un suo show in cui mischia yo-yo, magia ed equilibrismo e si avvicina così alle tecniche del circo; frequenta poi le lezioni della coreografa Lucis Latour che lo mettono a contatto con la danza contemporanea. “Dopodiché parto con un circo tradizionale, il circo Bellucci. Lì dovevo fare un numero, ma alla fine ne facevo cinque, sei, tutto: giocoleria di fuoco, un numero comico, ballavo il tango con una gallina… per me è stato un laboratorio molto importante e soprattutto un’esperienza umana fondamentale, perché capisco che il circo è un sistema complesso, una società assolutamente extra-territoriale e molto più bella della società europea del 2015 che non solo non mi piace, ma mi fa proprio schifo, per cui andando al circo mi ritrovo con altri valori, un’altra cultura. Io credo che il pubblico rimane attratto dal circo tradizionale oltre che dallo spettacolo in sé (che, purtroppo, ultimamente si è avvilito) proprio per questa magia: quel parcheggio squallido del più brutto centro commerciale viene trasformato in una terra lontana, in un altro paese”. Il Grito, in effetti, si distingue da altre compagini di circo contemporaneo proprio per questo attaccamento all’immaginario classico e al fascino ancestrale del tendone, che è anche cultura dell’artigianalità: “Noi ci facciamo le cose da soli. Lo chapiteau l’ho progettato io, il palco l’ho saldato io, Fabiana ha cucito le quinte…”; solo una motivazione forte può sostenere un progetto così faticoso, fatto anche di difficoltà pratiche come l’acquisto di un camion, le incombenze burocratiche, il montaggio e lo smontaggio delle strutture necessarie. “Faremo pure circo contemporaneo però la fatica è primordiale!”

Durante l’intervista Giacomo pesa ogni parola, ci tiene a far capire esattamente quello pensa perché sta parlando di una cosa che gli sta a cuore. È asistematico nell’esposizione, ma ha assolutamente chiare le istanze che muovono El Grito e vuole che l’interlocutore le comprenda altrettanto bene. È un intellettuale suo malgrado: rifugge gli snobismi e le astrazioni, fonda la sua estetica sull’immediatezza ma ha la competenza per teorizzare ciò che fa e, soprattutto, trae piacere dal ragionarci sopra. La definizione che la compagnia ha scelto per se stessa è quella di “circo contemporaneo all’antica” ed in queste quattro parole si trova concentrata la poetica del gruppo, una messa in pratica delle riflessioni del filosofo Giorgio Agamben, che sostiene che contemporaneo può esserlo solo chi vive e descrive il proprio tempo senza però aderirvi completamente. “Quell’anacronismo ti permette di guardare le cose con un po’ di distanza. In Italia se dici circo pensi al domatore, pensi agli animali, pensi ad una cosa diversa da quella che siamo noi e dobbiamo dirti che siamo circo contemporaneo, però neanche ci riconosciamo del tutto nella proposta estetica del circo contemporaneo, perché c’è questo elemento di distacco che poi si traduce nella prerogativa di fare spettacoli autenticamente popolari”. Il rifiuto di quella che Costantini chiama “deriva iper-borghese” del circo contemporaneo è dettata dal rigetto degli intellettualismi incomprensibili ed elitari. Vista la situazione generale e le condizioni in cui lo spettacolo popolare è costretto a muoversi, fa un certo effetto pensare che col circo si possa far politica, ma anche in questo Giacomo ha seguito il suo istinto, trovando ad esempio naturale assecondare le proprie inclinazioni progettando il Piccolo Circo Magnetico Libertario, uno spettacolo-presentazione de L’Armata dei Sonnambuli, romanzo dei Wu Ming (un collettivo di scrittori apertamente orientato politicamente) che il fondatore del Grito considera un punto di riferimento nel panorama culturale italiano. “E’ stata una sorta di cabaret con reading di passaggi del libro alternati a momenti in cui le atmosfere evocavano le tracce del romanzo, in particolare la linea del mesmerismo: soprattutto giochi di forza… con loro abbiamo fatto proprio degli esercizi di ipnosi della mente”. 
Ma come nasce, in concreto, uno spettacolo del Grito? “Abbiamo un vero e proprio metodo: prima di tutto aspettiamo la necessità di farlo, dobbiamo proprio sentirlo; c’è una fase che è aperta a 360 gradi, libera su tutto”; Giacomo la visualizza come una sorta di “armadio” in cui riporre le idee e le suggestioni più disparate, dai numeri circensi che pensano di portare nello show ai concetti che vogliono esprimere. “A un certo punto ti fai un’idea vaga e ti scegli un tema… ma poi questo nello spettacolo magari non c’è, perché caposaldo della nostra estetica è che col circo non si racconta, col circo si evoca. Il teatro può raccontare, il circo per quanto ci riguarda e coi nostri strumenti, può evocare”. Uno dei principali motivi per cui Giacomo può non apprezzare uno spettacolo è la tendenza di appesantirlo con sovrastrutture narrative che non servono, “perché alla fine, parliamoci chiaro, io sto aspettando che tu attraversi quel filo; mi puoi raccontare quanto vuoi che quelli sono i panni da stirare, ma io sto aspettando che tu ci fai un salto mortale sopra”. Eppure l’esperimento coi Wu Ming andava proprio a sondare esplicitamente la possibilità di utilizzare un’arte fondamentalmente presentazionale come il circo per raccontare una storia, e quel tentativo a cavallo tra letteratura ed arte di strada potrebbe addirittura avere un seguito ne 
L’uomo calamita e la donna dai capelli d’acciaio, una nuova collaborazione tra El Grito e Wu Ming 2 che, tanto per restare nel campo delle infinite potenzialità ancora inespresse dalla pista, parlerà di due circensi anarchici della Seconda Guerra Mondiale che prendono parte a scorribande partigiane. Nella giocoleria con una sola pallina di 20 Decibel, per fare un altro esempio, è proprio l’idea drammaturgica che sta dietro al numero a rendere particolare la performance: con la scusa che la musica di sottofondo continua solo se l’artista mantiene una mano sul ginocchio, egli è costretto a giocolare esclusivamente con l’altra o a cambiare mano repentinamente; una maniera originale di proporre il virtuosismo. Come si concilia allora questa volontà di raggiungere lo spettatore con la performance in sé alla grande ricerca preparatoria e all’“armadio” pieno di suggestioni con cui riempire lo spettacolo? “E’ un equilibrio molto delicato, molto sottile” ammette Costantini, che pur partendo magari da astrazioni e concetti eterei, inserisce nella scrittura degli show dei “punti di ancoraggio” che permettano al pubblico di non perdersi, “dei punti coi quali ti fai una tua storia che per te è coerente e possibilmente costruttiva”. Per comprendere l’estetica del Grito bisogna in qualche modo affrontare questa apparente contraddizione, che è centrale perché si tratta di una vera e propria sfida: operare in questo modo significa lavorare su diversi piani di lettura, ottenendo risultati ambivalenti e per questo estremamente interessanti; secondo la concezione di Giacomo, la possibilità di emozionare anche chi non riesce a cogliere i sottotesti e le allusioni più colte convive con la trasmissione di quegli stessi riferimenti, che comunque in qualche modo vengono percepiti grazie alla passione che li ha generati; il compito che si è prefisso Costantini non è insegnare qualcosa allo spettatore, ma offrirgli un’opera di qualità immediatamente fruibile; sta poi all’occhio di guarda decidere (in base anche agli strumenti critici che possiede) quanto spingersi in profondità.
Alla fine della conversazione chiediamo a Giacomo quale sia, in definitiva, il senso del Circo El Grito. “Se tu mi chiedi perché faccio quello che faccio, è perché sento che è l’unica cosa che potrei fare nella vita. Appare presuntuoso dirlo, ma credo che anche se non fosse stato inventato il circo contemporaneo farei questo. È il contenitore perfetto per un curioso della creatività”. 

 

Nicola Campostori