Nel film “The Greatest Showman” Hugh Jackman è il fondatore del celebre circo, “lo Steve Jobs dei suoi tempi’. Ma in scena andavano disabili, in un crudele freak show
«The prince of humbug», il principe degli imbroglioni: così si faceva chiamare il re del circo Phineas Taylor Barnum. E così era, infatti. Basti dire che il primo personaggio che lanciò nel firmamento dello spettacolo era una vecchia schiava del Kentucky, si chiamava Joice Heth e fu spacciata come un’eccentricità mondiale: «Signore e signori, con i suoi 161 anni ecco a voi la balia di George Washington!». Una balla. Ovvio. La poveretta era nata da qualche parte degli States presumibilmente nel 1756, quando il futuro presidente degli States aveva già 24 anni, e quando fu comprata dal nostro truffatore, nel 1835, di anni ne aveva al massimo una novantina. Ma che importava? Pare fosse proprio simpatico, quel vecchio lazzarone, a leggere l’intervista data da Hugh Jackman a Stefano Pistolini del Venerdì per la prossima uscita del film The Greatest Showman. «Barnum va considerato alla stregua di uno Steve Jobs, per la capacità di innovare senza timori», ha spiegato entusiasta l’attore: «L’idea di circo all’epoca era quella d’uno spettacolo degradante, una sfilata degli orrori. Lui ne fece un’esperienza meravigliosa…». Pochi mesi fa, parlando con La Stampa, il divo australiano era andato oltre, annunciando trionfante che nel film non c’erano animali: «Ne abbiamo discusso sin dall’inizio, per sette anni, e alla fine abbiamo un cavallo montato da Tom Thumb» (cioè l’attore nella parte di Charles Sherwood Stratton, un nano alto 64 centimetri presentato sui tabelloni come «il generale Tom Thumb») «e un cane, che ieri si è seduto con la regina, ma a parte loro nessun animale». Una scelta politically correct: non sta bene mostrare ancora gli animali al circo. Neanche di un secolo fa. Tanta sensibilità, certo, non l’aveva Phineas T. Barnum. Che per attirare l’attenzione, la curiosità e la morbosità del pubblico era disposto a tutto.
Erano altri tempi. Vero. Al punto che, come scrive Viviano Dominici nel libro Uomini nelle gabbie, l’Ottocento vide l’infame sfruttamento di donne come la «Venere Ottentotta» Saartjie Baartman (portata dal padrone dal Sud Africa a Londra perché si esibisse nuda nei teatri e nelle feste private mostrando le enormi natiche) o l’esibizione di «selvaggi» anche nelle Expo. Come gli otto inuit portati nel 1880 dal Labrador ad Amburgo e uccisi dal vaiolo. O i congolesi «esposti» a Bruxelles nel 1897 in recinti coi cartelli che dicevano: «Non dare da mangiare ai negri, sono nutriti».
Altri tempi, ma Barnum andò oltre. E si spinse a sbattere sulla scena una quantità di persone disabili additate al pubblico come fenomeni da baraccone. E c’erano i gemelli siamesi Chang e Eng, che venivano dalla Tailandia e da allora in poi avrebbero dato il nome a tutti i «gemelli siamesi» del pianeta. E Stephan Bibrowski, un polacco che a quattro anni era stato venduto dalla madre a un circo tedesco ed era detto «the Lion Man» perché aveva il corpo completamente coperto di pelo. E ancora Francesco Lentini, un giovane siracusano nato con tre gambe, quattro piedi, 16 dita e due aree genitali che con una grande forza di volontà imparò a camminare, correre, saltare la corda, andare in bicicletta e addirittura a pattinare sul ghiaccio. O ancora Myrtle Corbin, una ragazza dal viso bellissimo che di gambe ne aveva addirittura quattro. Andava matto, il signor Barnum, per questi «fenomeni» figli del dolore. E lo vogliamo ricordare come «politicamente corretto» senza leoni, cavalli o giraffe?