Cowboy e “pellerossa” a Trieste: Buffalo Bill e il circo Charles

Avatar Simone Cimino

Verso il 1787 un vascello spagnolo raccolse tre uomini sperduti nell’oceano: due femmine e un maschio, la cui “nazione, etnia, linguaggio e usanze… erano sconosciuti all’intera umanità”.
Il vascello spagnolo trasportò i tre misteriosi naufragi fino a Trieste, all’epoca fiorente porto sotto Giuseppe II d’Asburgo. Giudicandoli “selvaggi” di qualche lontana etnia e non sapendo parlare alcun linguaggio noto all’uomo (europeo) i tre sfortunati soggetti furono acquistati da Mr. Becket, un americano che gestiva un circo ambulante. I tre selvaggi – ammesso fossero davvero tali e non semplici schiavi o attori che fingevano – divennero presto uno dei punti forti dell’esibizione, che includeva uomini dalle straordinarie capacità fisiche, bambini prodigio e altre curiosità consone all’interesse antropologico del tempo. L’idea dell’uomo primitivo, senza cultura e civiltà di sorta, bene si adattava ai discorsi illuministi della nascente borghesia sul “buon selvaggio” Rousseauiano. Questo fu il primo, fortuito contatto di Trieste con il circo americano. Passarono i decenni e mentre carovane e spettacoli locali ed europei andavano e venivano, ci volle quasi un secolo prima che dall’oltremare giungesse un nuovo spettacolo.

La vita di William Frederick Cody, alias Buffalo Bill (18461917), si legge come un romanzo e non a caso ha ispirato, specie in Italia, un’infinita produzione di libri, fumetti e film sulle sue imprese.
Prima cowboy, poi soldato e infine impresario teatrale: un arco di vita emblematico del self made manamericano, teso alla conquista di un’eterna frontiera.
Nato nello stato di Iowa, si trasferisce presto nel Kansas, dove il padre, ardente anti-schiavista, viene accoltellato a morte da un sudista offeso da un suo discorso contro la schiavitù in America.
Appena quattordicenne compie la sua prima impresa, lavorando come postino del Pony Express: 3150 chilometri a cavallo ogni singolo giorno, il tutto per 25 giorni di fila. Già nel 1861 spicca nella guerriglia contro gli indiani, prima di arruolarsi, nel 1863, nel 7º Cavalleggeri del Kansas e vendicare il padre nella Guerra di Secessione americana. Durante il conflitto conosce e sposa l’italo-americana Louisa Frederici, della quale visiterà la patria a inizio ‘900.
Quando termina il conflitto, nel 1868, si arruola immediatamente come guida civile nell’esercito e come fucile al soldo della Pacific Railway, la cui espansione ferroviaria è in realtà una brutale guerra contro le tribù degli indiani. La mancanza di approvvigionamenti per gli addetti alla costruzione dei binari motiva “Cody” a scatenarsi in una folle caccia al bisonte: solo quattro anni gli bastano per abbattere oltre quattromila capi, che vanno a sfamare centinaia di operai.
È in quest’occasione che diventa “Buffalo Bill”, durante una gara con il precedente titolare di questo soprannome, William Comstock. In Italia c’è un’incomprensione al riguardo, perchè solitamente si scrive “Bufalo Bill”, riferendosi così al bufalo, animale diversissimo dai bisonti invece cacciati dagli americani a metà ottocento. Un’incomprensione dei traduttori traditori già diffusa nei giornali e nelle storie romanzate dell’ultimo quarto d’ottocento, quando il personaggio diventa una celebrità tra i lettori italiani…
La sua conoscenza dell’avversario indiano lo trasforma in un’invalutabile risorsa nella guerra contro i Sioux e i Cheyenne, al servizio del generale A. Merritt: rimasto famoso il suo duello a coltello, con una mano legata a un palo secondo l’uso indiano, contro il capo Mano Gialla, nella battaglia di Indian Creek (1876). Viene eletto deputato del Nebraska nel 1872 e in seguito lavora nel Circo Barnum come cavallerizzo e tiratore, fino al 1876.
Imparando dai migliori, fonda nel 1883 un proprio circo, dove mescola memorie della sua guerra contro gli indiani, acrobazie spericolate e lontani esotismi dal Giappone e dall’Arabia. Verso il 1890-1891 torna a dare manforte nella guerra contro i Sioux, ribellatosi per un’ultima volta.
Buffalo Bill aveva già visitato l’Europa con il suo circo nel 1887, ma è la sua seconda tournée nel 1906 a venire ricordata dai giornali e dalle testimonianze della Belle Époque come la più grande e meravigliosa.
Il Buffalo Bill Wild West rappresentava infatti un perfetto anello di congiunzione tra il vecchio secolo e il nuovo, tra l’ottocento e il novecento, tra il Far West “libero” e gli Stati Uniti come nazione e infine, tra le meraviglie e le nostalgie d’un secolo più civilizzato e le barbarie che si preparavano con il primo e il secondo conflitto mondiale. Involontariamente Buffalo Bill è tra i primi a sfruttare la propria impresa, la propria vita e a trasformarla in un grande, rutilante spettacolo: è un abile promotore, sì, ma innanzitutto di sé stesso. Un fatto d’una straordinaria attualità nell’era dei social e dell’ossessiva promozione della propria persona.

Il Wild West Show, come veniva definito, sostò a Trieste per tre giorni: il 1314 e 15 maggio 1906 per uno straordinario totale di 60000 spettatori dall’intera regione.
Trieste rappresentava infatti per Buffalo Bill una sosta prima d’iniziare la seconda parte del suo viaggio: dopo aver visitato Marsiglia e Nizza e aver incontrato una festosa accoglienza nelle città italiane, “Cody” iniziava con il porto dell’Austria un tragitto nel cuore dell’Europa Centrale e Orientale, attraverso Germania e Austria-Ungheria.
Il circo effettuò una breve sosta a Udine, ma dovette annullare la visita a Gorizia per problemi con la dogana; intanto quanto oggi definiremmo l’hype cresceva vertiginosamente e venivano organizzati vaporetti da Parenzo e treni speciali dal Friuli.
Il circo arrivò tra le ore 5 e le 7 del mattino e con velocità straordinaria se si considera la mole di cavalli e personale trasportavo via binario, allestì sul fondo Wildy, alla fine di via Rossetti, le impalcature con i sedili per gli spettatori e i colorati teli e manifesti che reclamavano le meraviglie di un Far West all’epoca già storia. Alle 14.30 dello stesso giorno il circo dava il suo primo spettacolo, a meno di otto ore dall’arrivo a Trieste.
Alla mattina una folla di triestini aveva già assistito assiepata in strada al passaggio sgargiante e pittoresco di Buffalo Bill e della sua crew a cavallo: prima via Ghega, poi via Carducci, la corsia Stadion (oggi via Battisti) e infine via Rossetti fino a giungere ai terreni del fondo Wildy.
Nonostante i biglietti fossero decisamente costosi, la prima rappresentazione vide già il Circo stracolmo e pericolosamente instabile. Lo sottolinea con piglio polemico il Gazzettino Popolare quando osserva come non fossero state garantite le più elementari norme di sicurezza. La Commissione di Vigilanza non sembrava infatti essersi accorta “del gran pericolo che stava nella massa del pubblico e nelle impalcature, del resto improvvisate ed eseguite in poche ore. Si può calcolare una vera fortuna se non avvengono catastrofi, che un solo grido basterebbe a provocare. La commissione vessatrice nulla ha veduto, di nulla s’è accorta in questo caso”.
Una polemica adatta a un giornalaccio da strada, ma involontariamente rivelatrice della massiccia affluenza del pubblico. Fulvio Senardi, nell’articolo Buffalo Bill a Trieste, pubblicato sul n. 2 del Quadernetto Giuliano(2017, pp. 8-9), trascrive la descrizione dello spettacolo a opera di un cronista dell’Indipendente, giornale filoitaliano e irredentista, ma di caratura repubblicana. Il giornalista, rimasto anonimo, offre al lettore un interessante spaccato etnografico del circo, senza trascurare un’ammirazione venata di machismo verso Buffalo Bill come uomo eroico e vincitore sui “selvaggi”.
Il cronista segnala i “vaqueros”, ovvero i cowboy messicani, a cui seguono i rough riders, volontari della guerra cubana guidati a suo tempo dal presidente Theodore “Teddy” Roosevelt e ovviamente i “‘cow-boys’domatori di cavalli”. Il giornalista li descrive con “corpi asciutti, facce bronzee, aria impassibile”. Ma il Circo di Buffalo Bill non è solo Far West, ma fascino esotico e abilità equestre da ogni parte del mondo conosciuto: “quindi in una meraviglia di rosso bianco e oro, montati su magnifiche cavalcature, arabi dalle facce cupree; quindi, accompagnandosi con una strana nenia, si precipitò il galoppo dei cosacchi dalle figure ispide, alte, nerborute, asciutte; quindi, e più intenso e più significativo si fece l’applauso della folla, vennero i giapponesi: giallognoli, minuscoli, impassibili”.
Immancabile, infine, la descrizione del “Big Man”: “colonnello W. F. Cody, l’uomo di cui la fama si perde quasi nella leggenda, e quasi lo circonfonde di una alone di eroismo: una bellissima figura d’uomo; eretto sulla persona non più giovanile, chiusa nella veste che gli fu compagna nelle venturose imprese”. Gli austro-ungarici rimasero esterrefatti durante le prove di destrezza, laddove “sbalordì con la diabolica abilità della sua carabina”.

Buffalo Bill non sarebbe stato tale senza i suoi “cattivi” e come tali i nativi americani rappresentavano nel Wild West Show un’attrattiva che proprio della sua pericolosità, del suo esotismo (inventato) si faceva alfiere. In realtà i nativi con i quali “Cody” collaborava mettevano in scena rituali e gesta di guerra a inizi ‘900 ormai anacronistiche e sorpassate: persino per i “pellerossa” lo spettacolo era una finzione, un recitare lo stereotipo inventato dall’impresario.
Nondimeno il Circo costituiva un interessante repertorio antropologico, un involontario saggio di tribù ed etnie prossime alla scomparsa: si andava dagli Indiani Brulés con lo Scudo Blu, Cheyennes con Colpo Duro, Arrapahoes con il capo Cuore Nero, la Polizia Indiana guidata da Orso Solitario e infine, anch’essi reliquie di un passato “rurale”, i “cowboys”, guidati da Sir Crompton.
I sei spettacoli a Trieste prevedevano gare a cavallo, prove di abilità e destrezza e soprattutto grandi ricostruzioni storiche: una caccia al bisonte, un assalto alla diligenza, a un convoglio di carri dei migranti, a una fattoria in fiamme. Oltre allo stesso Buffalo Bill, partecipavano leggende viventi del West come Annie Oakley “Piccolo Colpo Sicuro”. La battaglia finale prevedeva un epico scontro tra i “selvaggi” indiani e gli americani, con la partecipazione degli zuavi devlin e degli artiglieri del 6° reggimento di cavalleria americana.
Una curiosità: alcuni triestini riportarono, ficcanasando tra le retrovie del Circo, di aver sentito diversi pellerossa parlare un dialetto italiano del Sud. Sembra infatti che nel suo tour precedente in Italia, appena qualche mese prima, Buffalo Bill avesse reclutato diversi operai meridionali, i quali, allettati dall’ottima paga, l’avevano seguito nel suo viaggio verso l’Est Europa. “Cody” aveva dato loro vestiti e trucchi necessari a confondersi tra gli indiani per meglio amalgamarsi all’atmosfera “americana” del circo, dove persino gli operai erano “intonati” all’atmosfera western.

La visita di Buffalo Bill, piuttosto famosa e ricordata ad esempio nel libriccino introvabile di Giorgio Stern, “Buffalo Bill a Trieste” (1994), non fu l’unica nella città giuliana: otto anni dopo, nell’anno famigerato 1914, giungeva il circo Charles.
Guidato e fondato da Carl Krone a Monaco di Baviera nel 1905, il Circo (tutt’ora esistente) preparò il suo allestimento a Roiano, il 13 luglio. La sua attrazione in quel periodo erano proprio i Sioux, quegli stessi nativi americani contro i quali Buffalo Bill aveva combattuto. I sioux entusiasmarono i triestini con una colossale coreografia di cavalli e uomini chiamata i “Vindici della Prateria”. Il circo, con un tendone capace di ospitare fino a settemila spettatori in una sola volta, prevedeva spettacoli basati sugli animali, rispetto alle scene “storiche” di Buffalo Bill: orsi ammaestrati, pertanto; i leoni con Arengo, le tigri di Wagner, senza dimenticare zebre, un canguro “pugilatore” (!) e persino un ippopotamo ammaestrato.
Il circo Krone se ne andò il 28 luglio 1914, proprio quando l’Austria-Ungheria dichiarava guerra alla Serbia, innescando quanto sarebbe divenuto un conflitto mondiale.
Mentre le barbarie novecentesche avrebbero fatto sbiancare i pellerossa dei due circhi, merita menzionare come il circo Krone ritornò a Trieste, in tutt’altra forma, dal 1 al 17 maggio 1954. I giornali infatti menzionano il padiglione del circo in via San Marco: ancora una volta, uno spettacolo con oltre 412 animali, assieme a 12 “Mohameds”, gruppo di acrobati arabi che formavano delle piramidi umane; Enrico Caroli e i suoi fratelli, cavallerizzi acrobati; la famiglia Raspini sulle scale mobili; la trapezista Rose Gold “sospesa al trapezio coi talloni nudi e senza rete di protezione”; il domatore Schaefer con orsi bianchi che vuotano bottiglie e orsi bruni che vanno in bicicletta; Frieda Sembach-Krone temibile amazzone coi suoi 12 elefanti.
Non è un caso, perchè proprio in quegli anni era attivo un piccolo cinema a Trieste conosciuto come “Buffalo Bill”: dalle frontiere del Far West del circo e del palcoscenico, il mito di “Cody” riviveva ora nelle praterie di celluloide di Hollywood.

di Zeno Saracino