Scoperta nel Cinquecento, solo oggi riusciamo ad avere una spiegazione della particolare pigmentazione della tigre bianca. Ora l’obiettivo è reintrodurla nella foresta.
La maestosità del felino e la solennità dell’abito bianco sono due caratteristiche che, congiunte, non passano inosservate. Le prime cronache a parlare della tigre bianca, appartenente alla famiglia delle tigri del Bengala, risalgono al ’500 e solo oggi il mistero di quel manto color latte è stato risolto. La rivista specializzata “Current Biology” ha pubblicato il 23 maggio la ricerca condotta da Shu-Jin Luo della China’s Peking University. Luo e i suoi collaboratori hanno osservato il genoma di 16 famiglie diverse di tigri, sia bianche che arancioni, scoprendo che responsabile dell’assenza di colore risiede nel gene della pigmentazione SLC45A2. Lo stesso gene caratterizza il colore della pelle dell’uomo europeo, dei cavalli, del pollo e dei pesci. La variante presente nelle tigri inibisce la pigmentazione rossa e gialla, senza tuttavia limitare quella nera. Questo meccanismo spiega il motivo per il quale le tigri bianche conservano comunque le strisce nere tipiche della specie.
La tigre bianca ha rischiato l’estinzione soprattutto a causa della caccia, dato l’interesse che il manto bianco ha sempre mosso i bracconieri. L’ultimo di questi felini ad essere stato cacciato, tuttavia, risale al 1958. Ora la specie sopravvive in cattività, dove l’accoppiamento interno alla stessa famiglia garantisce il proseguimento della specie, nell’attesa di poter reinserire la tigre bianca nel suo habitat. Obiettivo dell’attività di Luo, del resto, è la reintroduzione nella foresta della tigre bianca e la comprensione del ruolo svolto dalla pigmentazione nella selezione della specie.